Quattro tipi nella Chiesa di oggi

Di: Mons. Alberto José González Chaves

Quattro tipi nella Chiesa di oggi

Ci sono momenti della storia ecclesiastica in cui le anime sembrano mescolarsi come ombre in un vitrale al tramonto, trafitte da una stessa Luce; e altri, come l’odierno – lo raddrizzerà il Leone, il cui davidico XIV suscita speranza? – in cui ogni tipo umano si delinea con esuberante nitidezza, emergendo così, nel teatro bimillenario della Chiesa, oggi così smarrita, quattro profili, non chimicamente puri.

Il neocón attuale è, senza dubbio, la figura più acrobatica del cast. Nel periodo immediatamente precedente, di non facile ricordo, si esercitò in un grottesco sinfín di contorsioni intellettuali che lascerebbero piccoli trapezisti, saltimbanchi e cristobiti di ogni genere. Soffrì più di cento sobbalzi dottrinali; cento boutade gli irritarono la tromba di Eustachio; lo sconcertarono cento decisioni quia nominor Leo (anche se non era Leone); lo terrorizzarono cento nomine quintecolonniste; ma, fedele alla sua natura superestupenda, avvolse tutto in un celofán ermeneutico rosato. La sua specialità era – ed è – convertire l’inaccettabile in “dialogo costruttivo”, il calpestio del principio di non contraddizione in “nuova prospettiva”, e il vento gelido sterilizzante in «segno di primavera». Di fronte a ogni scontro evidentemente letale, divisivo, il neocón, enchanté, descriveva la collisione come “incontro fecondo”, e quando la bussola indicava il sud del sud, lui spiegava, con accento melenso, che in realtà ci avevano scoperto un’orientazione inedita, in fondo «positiva e arricchente». Se non arrivava a pontificare, semiconvinto dal suo direttore spirituale (che cita ogni volta che può, socchiudendo gli occhi) che si trattava di «¡le sorprese di Dio!». E il fatto è che, più o meno coscientemente (a seconda del grado di emasculazione cerebrale) il neocón scelse di vivere nel possibilismo, quella forma sottile di auto-suavizzazione selettiva che non distingue più tra prudenza e rinuncia. Non chiamerà mai il male per nome, non sia mai che ¡orrore!, si rompa la comunione estetica; cesellerà sofismi di impossibile digestione finché non si adattino a un modello che non esprime più la realtà, ma il suo timore cervale di affrontarla: se la verità esige un passo fermo, lui, barcollante, lo guarda come rischio ecumenico più che come esigenza morale e dichiarazione di virilità onesta. La sua anima, costretta da tanto centrifugato, sbiadita e abituata ad attutire tutto, ha finito per coltivare una fede di porcellana di Sèvres, così delicata che può solo essere contemplata da lontano per non romperla, come chi teme che la verità detta ad alta voce incrinasse il suo biscotto, celato in un fanale di mírame y no me toques. Imperturbabile il gesto (espressione che lui non userebbe nemmeno per idea), il neocón custodisce una persuasione intima che non formulerà mai apertamente: che lui —proprio lui— è chi veramente “sente con la Chiesa”, chi abita la striscia esatta del magistero, chi incarna l’obbedienza matura, «cadaverica», come apprese in un Esercizio. Gli altri, anche se sempre gli sorride con il collo inclinato, sono spiriti errati: alcuni peccano per eccesso: poveri esaltati; altri per difetto: non hanno formazione. Meno male che lui cammina sulla linea media dello Spirito Santo, perché gli altri, fuori dalla sua pista, scivolano verso la disobbedienza, l’ardore dottrinale o una sospetta rigidità di cetriolo in aceto, metafora che ancora gli risulta molto simpatica disegnandogli un sorriso stolido. Nel setaccio della sua gola, il virile clamore di verità eterne degli Elia e Battisti, degli Ilario e Atanasio, dei Ghisleri e Sarto, si filtrò in voce di carne di membrillo.

L’integralista, al contrario, non capì mai quei malabarismi: la sua non è bilanciare facendo trucco con la bilancia, ma definire, «alla romana» di sempre. Anima ardente, chiara e robusta, non può sopportare che la verità sia servita edulcorata e a gocce. La sua franchezza, oggi chiamata intolleranza da molti, tuttavia, per altri è acqua fresca nel deserto. C’è in lui una nobiltà antica, senza doppio fondo, un’aria di crociato disarmato ma invincibile, come quei santi vecchi, metà monaco metà soldato, che preferivano mille volte l’intemperie all’ambiguità, e l’onore signorile al vilipendio morganatico. Ma l’integralista ha anche le sue asperità: a volte confonde chiarezza con bruschezza, e la sua sincera rettitudine può essere vitrea. Guarda la fede come una montagna da scalare, non da sinodalizzare, e questo provoca nervosismo in chi preferisce il comfort diplomatico dell’assembleismo e l’equidistanza buonista, nemica di rischi alpinistici. L’integralista corre il rischio di dichiarare tutto essenziale, eludendo la gerarchia (con minuscola, eh?; di convertire ogni scaramuccia in guerra santa; e di dimenticare, a volte, che i cuori altrui hanno ritmi propri. Eppure, in questi anni di tenebre, fu uno dei pochi che mantenne accesa la lampada senza spegnerla per non disturbare.

Il post-progressista è un altro paesaggio. È il figlio di un’illusione esaurita: credette che la Chiesa, diventando carne di festa, conquistasse il mondo; e scoprì che il mondo non conquista nulla che non possa usare e buttare. Vive una specie di lutto silenzioso: ha lasciato dietro entusiasmi color pastello, ma gli costa guardare in faccia l’alba gialla e vermiglia: sono toni troppo vigorosi. Si è fatto così prudente e dolce, così plurale, così dialogante ed empatico, ¡così Abu Dhabi e Pachamama..! La sua verità intima è che guarda il passato recente con segreto rossore, ma senza fegato per emendarlo. Lo sa, e in qualche notte d’insonnia… si fa pena. Il suo scetticismo con gesto di Gioconda è un modo di dire “vedremo” che non impegna nulla né salva nessuno. La sua capitolazione – rassegnarsi a morire per il fallimento della sua ricetta – è la sua ferita irrimediabilmente emofiliaca: piange da donna ciò che non seppe difendere da uomo. Non è solo vittima di un’epoca: lo è di se stesso. Più ancora, dietro il suo volto stanco e nella rebotica del suo cuore annoiato e solitario batte ancora quella speranza titubante che un giorno la chiarezza torni a essere qualcosa di bello e non “problematico”.

E il tradizionalista, infine, ha anche le sue ombre. Il suo amore per l’eredità lo onora, il suo culto per il fuoco sacro lo sostiene, la sua virile pietà lo nobilita; ma non sempre distingue tra tradizione viva e costume invecchiato. Il suo rischio è confondere trauma con profezia: portare dentro ferite reali, ma convertirle in una lente universale. Il suo scoglio è lo zelo amaro: vivere troppo di torti, di confronti, di un purismo che non sopporta crepe umane. Ma, se non ha rinunciato a ridere, cantare e brindare, in lui c’è anche una fedeltà entrañable: quella di chi accarezza la fede con mano tremante e pianto nascosto, con quella miscela di dolore e perdono che conoscono coloro che sono stati emarginati ingiustamente. Perché il tradi ha sofferto un’ingiustizia storica innegabile: è stato lasciato solo. E macinato. E stigmatizzato. E caricaturizzato. Trattato come appestato in una Chiesa dove c’è posto per tutti, tutti, tutti, meno per lui, espulso dal salotto da tè dove si riceve con rendez-vous nemici dichiarati e deleteri. Il tradi è stato ignorato per preservare mentre altri erano prebende per dissolvere. E nonostante ciò, lui, con la sua famiglia numerosa e unita, ha continuato ad amare e servire la Chiesa con una perseveranza proscritta dalle foglie diocesane, come sentinella che nessuno applaude, guardiano che nessuno riconosce, pietra angolare che sostiene senza esibire né incassare.

Tutti loro, i quattro tipi, con le loro luci e le loro crepe, camminano ora in un clima nuovo che alcuni accolgono con sollievo e altri con un silenzio che non si sa se sia prudenza o timore. Forse nei quattro batte semplicemente la stessa fede e la stessa grazia, ma sarebbe un errore convertire quell’affermazione in alibi per l’irresponsabilità buonista e acritica. Perché ci sono atteggiamenti che rafforzano la Chiesa e atteggiamenti che la indeboliscono, fedeltà che sostengono e «fedeltà» che anestetizzano. L’orizzonte della vita eterna non ci offusca la confusione temporale.

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