En un’Audiencia Generale segnata dalla catechesi giubilare sulla speranza cristiana, papa Leone XIV ha meditato su uno dei grandi interrogativi che attraversano l’esistenza umana: il senso della morte e la luce che la Risurrezione di Cristo proietta su di essa. Riunito in Piazza San Pietro con migliaia di pellegrini, il Pontefice ha ricordato che la società contemporanea ha trasformato la morte in un tabù, nascondendola dietro distrazioni o promesse tecnologiche di immortalità, proprie del transumanesimo, che non possono rispondere all’aspirazione all’eternità inscritta nel cuore umano.
Leone XIV ha sottolineato che la Pasqua di Cristo costituisce la risposta definitiva alla paura ancestrale della morte, perché rivela che non è la fine, ma un passaggio verso la vita piena. Nella sua riflessione ha evocato l’insegnamento classico di san Alfonso Maria de Liguori, per il quale la coscienza della morte educa il cuore e orienta le decisioni verso l’essenziale. Il Papa ha messo in guardia contro l’illusione di una vita prolungata indefinitamente da mezzi tecnici, chiedendo se un’esistenza senza morte sarebbe davvero una vita felice.
Il Pontefice, visibilmente colpito dalla notizia dell’acuirsi del conflitto tra Thailandia e Cambogia, ha chiesto un immediato cessate il fuoco e ha mostrato la sua vicinanza alle popolazioni colpite. La catechesi si è conclusa con l’affermazione centrale che vertebra tutto l’Anno Giubilare: solo la Risurrezione di Cristo illumina il mistero della morte e converte la paura in speranza, aprendo il credente alla certezza di un’eternità preparata dall’Amore divino.
Lasciamo qui di seguito il messaggio completo di Leone XIV:
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!Benvenuti tutti!
Il mistero della morte ha sempre suscitato profonde domande nell’essere umano. Infatti, sembra essere l’evento più naturale e, al tempo stesso, più innaturale che esista. È naturale, perché tutti gli esseri viventi della terra muoiono. È innaturale perché il desiderio di vita e di eternità che proviamo per noi stessi e per le persone che amiamo ci fa vedere la morte come una condanna, come un «non senso».
Molti popoli antichi svilupparono riti e costumi legati al culto dei morti, per accompagnare e ricordare coloro che si incamminavano verso il mistero supremo. Oggi, invece, si osserva una tendenza diversa. La morte sembra una sorta di tabù, un evento da tenere lontano; qualcosa di cui parlare a voce bassa, per non turbare la nostra sensibilità e tranquillità. Spesso, per questo, si evita persino di visitare i cimiteri, dove riposano coloro che ci hanno preceduto nell’attesa della risurrezione.
Cos’è, dunque, la morte? È davvero l’ultima parola sulla nostra vita? Solo l’essere umano si pone questa domanda, perché solo lui sa che deve morire. Ma essere consapevole di ciò non lo salva dalla morte, bensì, in un certo senso, lo «opprime» più di tutte le altre creature viventi. Gli animali soffrono, senza dubbio, e si rendono conto che la morte è vicina, ma non sanno che la morte fa parte del loro destino. Non si interrogano sul senso, sulla fine o sul risultato della vita.
Costatando questo aspetto, si dovrebbe pensare allora che siamo creature paradossali, infelici, non solo perché moriamo, ma anche perché abbiamo la certezza che questo evento avverrà, sebbene ignoriamo come e quando. Ci scopriamo consapevoli e, al tempo stesso, impotenti. Probabilmente da qui provengono le frequenti repressioni, le fughe esistenziali di fronte alla questione della morte.
San Alfonso Maria de Liguori, nel suo famoso scritto intitolato Preparazione alla morte, riflette sul valore pedagogico della morte, sottolineando che è una grande maestra di vita. Sapere che esiste e, soprattutto, meditarvi su ci insegna a scegliere cosa fare realmente con la nostra esistenza. Pregare, per comprendere ciò che è buono in vista del regno dei cieli, e lasciar andare il superfluo che, invece, ci lega alle cose effimere, è il segreto per vivere in modo autentico, con la coscienza che il passaggio sulla terra ci prepara all’eternità.
Tuttavia, molte visioni antropologiche attuali promettono immortalità immanente e teorizzano sulla prosecuzione della vita terrena mediante la tecnologia. È lo scenario del «transumanesimo», che si apre strada all’orizzonte delle sfide del nostro tempo. Potrebbe la scienza vincere davvero la morte? Ma allora, potrebbe la stessa scienza garantirci che una vita senza morte è anche una vita felice?
L’evento della risurrezione di Cristo ci rivela che la morte non si oppone alla vita, ma ne è parte costitutiva come passaggio alla vita eterna. La Pasqua di Gesù ci fa pregustare, in questo tempo ancora pieno di sofferenze e prove, la pienezza di ciò che avverrà dopo la morte.
L’evangelista Luca sembra cogliere questo presagio di luce nel buio quando, alla fine di quel pomeriggio in cui le tenebre avevano avvolto il Calvario, scrive: «Era il giorno della Preparazione e già cominciava il sabato» (Lc 23,54). Questa luce, che anticipa il mattino di Pasqua, già brilla nel buio del cielo che ancora sembra chiuso e muto. Le luci del sabato, per la prima e unica volta, annunciano l’alba del giorno dopo il sabato: la nuova luce della Risurrezione. Solo questo evento è capace di illuminare fino in fondo il mistero della morte. In questa luce, e solo in essa, si realizza ciò che il nostro cuore desidera e attende: che la morte non sia la fine, ma il passaggio verso la luce piena, verso un’eternità felice.
Il Risorto ci ha preceduto nella grande prova della morte, uscendone vittorioso grazie al potere dell’Amore divino. Così ci ha preparato il luogo del riposo eterno, la casa in cui siamo attesi; ci ha dato la pienezza della vita in cui non ci sono più ombre né contraddizioni.
Grazie a Lui, che è morto e risorto per amore, con san Francesco possiamo chiamare la morte «sorella». Attenderla con la certezza della risurrezione ci preserva dalla paura di scomparire per sempre e ci prepara alla gioia della vita senza fine.
