Leone XIV ha iniziato la tappa libanese del suo viaggio apostolico dopo il suo arrivo all'aeroporto internazionale di Beirut il 30 novembre. Dopo la cerimonia di benvenuto ufficiale, il Pontefice si è recato al Palazzo Presidenziale per incontri successivi con il presidente della Repubblica, il presidente dell'Assemblea Nazionale e il primo ministro. La giornata si è conclusa con un discorso rivolto alle autorità, ai rappresentanti della società civile e al corpo diplomatico, in cui ha centrato il suo messaggio sulla pace, la riconciliazione e la resilienza del popolo libanese.
Cerimonia di benvenuto e incontri istituzionali
Il Papa è stato ricevuto all'aeroporto dal presidente della Repubblica, dal presidente dell'Assemblea Nazionale, dal primo ministro, dalle rispettive consorti e dal patriarca. Dopo gli onori dovuti, si è diretto in corteo al Palazzo Presidenziale, dove la cavalleria ha scortato il suo arrivo all'ingresso principale. Il presidente e sua moglie gli hanno dato il benvenuto ufficiale accompagnati da un gruppo di danza tradizionale. Due giovani hanno omaggiato il Pontefice con fiori al termine della cerimonia di accoglienza.
Nella Sala degli Ambasciatori ha avuto luogo l'incontro privato tra il Papa e il presidente libanese. Successivamente si è svolta la presentazione della famiglia presidenziale e lo scambio di doni. Quindi, il Santo Padre ha tenuto riunioni separate con il presidente dell'Assemblea Nazionale e con il primo ministro. Prima di proseguire con gli atti previsti, il Papa ha firmato il Libro d'Onore all'ingresso del Palazzo e ha benedetto un “cedro dell'amicizia” piantato nei giardini.
Incontro con autorità, società civile e corpo diplomatico
Leone XIV si è riunito con rappresentanti politici, religiosi, imprenditoriali e culturali del paese nel Palazzo Presidenziale, nonché con membri del corpo diplomatico. Dopo l'intervento del presidente della Repubblica, il Papa ha pronunciato un discorso ampio incentrato sulla sfida di costruire la pace in un contesto di crisi, fratture interne e pressioni regionali.
Pubblichiamo di seguito le prime parole di Leone XIV a Beirut:
Signor Presidente della Repubblica,
distinte autorità civili e religiose,
membri del Corpo Diplomatico,
signore e signori:
Beati quelli che operano per la pace!
È una grande gioia incontrarvi e visitare questa terra in cui “pace” è molto più di una parola. Qui la pace è un desiderio e una vocazione, è un dono e un'opera in continua costruzione. Voi siete investiti di autorità in questo paese, ciascuno nel proprio ambito e con funzioni specifiche. Alla luce di questa autorità, desidero rivolgervi le parole di Gesù, scelte come ispirazione fondamentale del mio viaggio: «Beati quelli che operano per la pace» (Mt 5,9). Certamente, ci sono milioni di libanesi, qui e in tutto il mondo, che servono la pace silenziosamente, giorno dopo giorno. A voi, tuttavia, che avete importanti compiti istituzionali all'interno di questo popolo, spetta una beatitudine speciale se potete dire di aver anteposto l'obiettivo della pace a tutto il resto. Desidero, in questo incontro, riflettere un po' con voi su ciò che significa essere artefici della pace in circostanze molto complesse, conflittuali e incerte.
Oltre alle meraviglie della natura e alle ricchezze culturali del Libano, già elogiate da tutti i miei predecessori che hanno visitato il vostro paese, risplende una qualità che distingue i libanesi: voi siete un popolo che non si arrende, ma che, di fronte alle prove, sa sempre rinascere con coraggio. La vostra resilienza è una caratteristica imprescindibile dei veri costruttori di pace: l'opera della pace, infatti, è un continuo ricominciare. L'impegno e l'amore per la pace non conoscono la paura di fronte alle apparenti sconfitte, non si lasciano piegare dalle delusioni, ma sanno vedere oltre, accogliendo e abbracciando con speranza tutte le realtà. Ci vuole tenacia per costruire la pace; ci vuole perseveranza per generare vita e custodirla.
Interrogate la vostra storia. Chiedetevi da dove viene la grande forza che non ha mai lasciato il vostro popolo abbattuto, senza speranza. Voi siete un paese vario, una comunità di comunità, ma unite da una lingua comune. Non mi riferisco solo all'arabo levantino che parlate e attraverso il quale il vostro grande passato ha disseminato perle di inestimabile valore; mi riferisco soprattutto alla lingua della speranza, quella che vi ha sempre permesso di ricominciare. Intorno a noi, in quasi tutto il mondo, sembra aver vinto una sorta di pessimismo e un sentimento di impotenza; le persone sembrano non essere più capaci nemmeno di chiedersi cosa possono fare per cambiare il corso della storia. Le grandi decisioni sembrano prenderle pochi e, spesso, a detrimento del bene comune, ciò che sembra un destino ineluttabile. Voi avete sofferto molto le conseguenze di un'economia che uccide (cf. Esort. ap. Evangelii gaudium, 53), dell'instabilità globale che anche nel Levante ha ripercussioni devastanti, della radicalizzazione delle identità e dei conflitti, ma avete sempre voluto e saputo ricominciare.
Il Libano può vantarsi di una società civile dinamica, ben formata, ricca di giovani capaci di esprimere i sogni e le speranze di un intero paese. Per questo vi esorto a non separarvi mai dal vostro popolo e a mettervi al servizio del vostro popolo —così ricco nella sua varietà— con impegno e dedizione. Che possiate parlare una sola lingua: la lingua della speranza che fa convergere tutti in un costante ricominciare. Il desiderio di vivere e crescere insieme, come popolo, faccia di ogni gruppo la voce di una polifonia. Vi aiuti anche il profondo legame di affetto che unisce il vostro paese a tanti libanesi sparsi nel mondo. Essi amano la loro origine, pregano per il popolo di cui si sentono parte e lo sostengono con le molteplici esperienze e competenze che li rendono così apprezzati in tutti i luoghi.
Arriviamo così a una seconda caratteristica dei costruttori di pace: non solo sanno ricominciare, ma lo fanno soprattutto attraverso l'arduo cammino della riconciliazione. Infatti, ci sono ferite personali e collettive che richiedono lunghi anni, a volte generazioni intere, per poter guarire. Se non si curano, se non si lavora, per esempio, sulla guarigione della memoria, su un avvicinamento tra coloro che hanno subito torti e ingiustizie, è difficile avanzare verso la pace. Si rimane bloccati, prigionieri ciascuno del proprio dolore e delle proprie ragioni. La verità, invece, può essere onorata solo attraverso l'incontro. Ciascuno di noi vede una parte della verità, ne conosce un aspetto, ma non può rinunciare a ciò che solo l'altro sa, a ciò che solo l'altro vede. La verità e la riconciliazione crescono sempre insieme e solo insieme: tanto in una famiglia come tra le diverse comunità e le varie anime di un paese, o tra le nazioni.
Al tempo stesso, non c'è riconciliazione duratura senza un obiettivo comune, senza un'apertura verso un futuro in cui il bene prevalga sul male subito o inflitto nel passato o nel presente. Pertanto, una cultura della riconciliazione non nasce solo dal basso, dalla disponibilità e dal coraggio di alcuni, ma ha bisogno di autorità e istituzioni che riconoscano il bene comune al di sopra del bene parziale. Il bene comune è più della somma di molti interessi: avvicina il più possibile gli obiettivi di ciascuno e li muove in una direzione in cui tutti avranno di più che se procedessero separatamente. La pace è, infatti, molto più di un equilibrio, sempre precario, tra coloro che vivono separati sotto lo stesso tetto. La pace è sapere convivere, in comunione, come persone riconciliate. Una riconciliazione che, oltre a farcene convivere, ci insegnerà a lavorare insieme, gomito a gomito, per un futuro condiviso. È allora che la pace diventa quell'abbondanza che ci sorprende quando il nostro orizzonte si amplia oltre qualsiasi recinzione e barriera. A volte si pensa che, prima di fare qualsiasi passo, sia necessario chiarire tutto, risolvere tutto, ma è il dialogo reciproco, anche nelle incomprensioni, il cammino che conduce alla riconciliazione. La verità più grande di tutte è che siamo insieme inseriti in un progetto che Dio ha preparato perché siamo una famiglia.
Infine, vorrei delineare una terza caratteristica dei costruttori di pace. Osano rimanere, anche quando ciò implica un sacrificio. Ci sono momenti in cui è più facile fuggire o, semplicemente, risulta più comodo andare altrove. Ci vuole molto coraggio e visione del futuro per rimanere o tornare nel proprio paese, considerando degne di amore e dedizione anche condizioni piuttosto difficili. Sappiamo che l'incertezza, la violenza, la povertà e molte altre minacce producono qui, come in altri luoghi del mondo, un'emorragia di giovani e famiglie che cercano un futuro altrove, nonostante il grande dolore che rappresenta lasciare la patria. Senza dubbio, va riconosciuto che molti dei libanesi sparsi nel mondo apportano cose molto positive a tutti voi. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che rimanere nella patria e collaborare giorno dopo giorno allo sviluppo della civiltà dell'amore e della pace rimane qualcosa di molto lodevole.
La Chiesa, infatti, non si preoccupa solo della dignità di coloro che si trasferiscono in paesi diversi dal loro, ma desidera che nessuno sia costretto a partire e che chi lo desidera possa tornare in condizioni di sicurezza. La mobilità umana, infatti, rappresenta un'immensa opportunità di incontro e arricchimento reciproco, ma non cancella il legame speciale che unisce ciascuno a determinati luoghi, ai quali deve la sua identità in modo del tutto peculiare. E la pace cresce sempre in un contesto vitale concreto, fatto di legami geografici, storici e spirituali. È necessario incoraggiare coloro che li favoriscono e se ne nutrono, senza cedere al localismo e al nazionalismo. Nell'enciclica Fratelli tutti, il Papa Francesco indicava questo cammino: «Bisogna guardare al globale, che ci salva dalla meschinità domestica. Quando la casa non è più casa, ma carcere, prigione, il globale ci va salvando perché è come la causa finale che ci attrae verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere con cordialità il locale, perché ha qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, attivare meccanismi di sussidiarietà. Perciò, la fraternità universale e l'amicizia sociale all'interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali» (n. 142).
Questa è una sfida non solo per il Libano, ma per tutto il Levante: cosa fare affinché soprattutto i giovani non si sentano obbligati ad abbandonare la loro terra ed emigrare? Come motivarli a non cercare la pace altrove, ma a trovare garanzie e a diventare protagonisti della stessa nella loro terra natale? In questo senso, cristiani e musulmani, insieme a tutti i settori religiosi e civili della società libanese, sono chiamati a fare la propria contribuzione e ad assumere l'impegno di sensibilizzare la comunità internazionale in merito.
In questo contesto, vorrei sottolineare il ruolo imprescindibile delle donne nell'arduo e paziente impegno di custodire e costruire la pace. Non dimentichiamo che le donne hanno una capacità specifica per lavorare per la pace, perché sanno custodire e sviluppare legami profondi con la vita, con le persone e con i luoghi. La loro partecipazione alla vita sociale e politica, così come a quella delle proprie comunità religiose, insieme alla forza che proviene dai giovani, rappresenta in tutto il mondo un fattore di vera rinnovazione. Beate, dunque, le donne che operano per la pace e beati i giovani che rimangono o ritornano, affinché il Libano continui a essere una terra piena di vita.
Concludo ispirandomi a un'altra caratteristica preziosa della vostra tradizione millenaria. Siete un popolo che ama la musica, la quale, nei giorni di festa, si trasforma in danza, linguaggio di gioia e comunione. Questo tratto della vostra cultura ci aiuta a comprendere che la pace non è solo il risultato di un impegno umano, per necessario che sia: la pace è un dono che viene da Dio e che, prima di tutto, abita nel nostro cuore. È come un movimento interiore che si riversa all'esterno, permettendoci di lasciarci guidare da una melodia più grande di noi stessi, quella dell'amore divino. Chi danza avanza con leggerezza, senza pestare la terra, armonizzando i propri passi con quelli degli altri. Così è la pace: un cammino mosso dallo Spirito, che dispone il cuore ad ascoltare e lo rende più attento e rispettoso verso l'altro. Cresca tra voi questo desiderio di pace che nasce da Dio e che già oggi può trasformare il modo di guardare gli altri e di abitare insieme questa terra, terra che Egli ama profondamente e continua a benedire.
Signor Presidente, distinte autorità, vi ringrazio nuovamente per l'ospitalità che mi state offrendo. Siate sicuri della mia preghiera e di quella di tutta la Chiesa per il vostro delicato servizio al bene comune.
