TRIBUNA: Lettera a Leone XIV sui titoli mariologici

Por: Francisco José Vegara Cerezo - sacerdote de Orihuela-Alicante

TRIBUNA: Lettera a Leone XIV sui titoli mariologici

Santità, certamente si deve iniziare riconoscendo che il documento Mater populi fidelis, che ha chiare intenzioni di risolvere dottrinalmente la questione trattata, e che è stato approvato e firmato formalmente, deve essere considerato, senza ambiguità, come magistero ordinario, il quale, come spiega il punto 892 del catechismo, esige obbedienza religiosa, al punto che nessuna coscienza cattolica che riconosca il firmatario è esentata dal suo sincero ossequio, la cui negazione, anzi, comporta una gravità che sta solo dietro alla disubbidienza di fede, punita con la scomunica, dato che per qualcosa si dirà che «Roma locuta, causa finita», e, sebbene si adduca la citazione di Atti 5, 29, in questioni di fede si deve obbedire al magistero come a Dio stesso, poiché, altrimenti, che senso ha l'assistenza speciale dello Spirito Santo, la cui funzione si suppone essere proprio quella di prestare una garanzia oggettiva?; pertanto, è fuori da ogni discussione che, se si è sentenziato che il titolo di corredentrice, applicato a Maria, è sempre inopportuno e inconveniente, e che, di conseguenza, il suo uso non è un vero onore alla Madre (n. 22), ma che, come conseguenza logica, sarebbe un disonore e persino un'ingiuria, non c'è altro da dire, e resta definitivamente proibito il suo uso nella teologia e nella liturgia cattoliche; sul titolo di mediatrice di tutte le grazie la sentenza non è così netta, nel dire che ha limiti che non facilitano la corretta comprensione del posto unico di Maria (n. 67); ma resta anche disautorizzato il suo uso, e non solo ovviamente nell'ambito teologico ma nuovamente in quello liturgico e devozionale.

Come, a mio parere, l'autentico costitutivo formale mariologico, cioè: quel titolo di Maria che fonda tutti gli altri, che, a loro volta, sgorgano dallo stesso, è la sua immacolata concezione, e non la sua maternità divina, che anche si deriverebbe dal precedente, credo che ogni studio serio mariologico debba partire da lì.

È comprensibile che il documento trattato non polemizzi su un titolo che è già dogma di fede, ma che semplicemente parli, nel punto 14, di Maria come la prima redenta; ma, se pretendiamo di regolarci con lo stesso rigore tecnico, risulta ineludibile porre fin dall'inizio come quel titolo si possa conciliare con la tajante sentenza paolina che tutti peccarono, e sono privi della gloria di Dio (Rm 3, 23), poiché l'universale deve inexorabilmente abbracciare la totalità integra dei particolari.

Si potrebbe persino dire che la mariologia cattolica ha un doppio peccato originale: l'assioma del «nunquam satis» e la nozione del privilegio mariano, poiché il primo apre una prospettiva infinita che solo propriamente a Dio corrisponde, e il secondo contraddice l'affermazione biblica che in Dio non c'è accettazione di persone (cf. Gb 34, 19; Mt 22, 16; At 10, 34; Rm 2, 11; Ga 2, 6, e Ef 6, 9); pertanto, non varrebbe l'argomento del privilegio come tentativo di sottrarre Maria all'universale paolino, poiché persino Dio, che non può negare se stesso (cf. 2Tm 2, 13), deve piegarsi al principio fondamentale della logica: quello di non contraddizione.

Già il doctor Angelico fece le seguenti affermazioni: La Vergine Maria (…) fu concepita corporalmente, e poi santificata spiritualmente (Suma Teológica III, q. 27, a. 1, ad 3); in qualsiasi modo la Vergine Maria fosse stata santificata prima dell'animazione, mai avrebbe contratto la macchia della colpa originale, e, di conseguenza, non avrebbe nemmeno avuto bisogno della redenzione e della salvezza che vengono per Cristo; (…) ma risulta inaccettabile che Cristo non sia il salvatore di tutti gli uomini (o. c. III, q. 27, a. 2); se l'anima della santissima Vergine non fosse mai stata macchiata dalla corruzione del peccato originale, sarebbe stata abbassata la dignità di Cristo, che emana dal suo carattere di salvatore universale; (…) la Vergine Maria contrasse il peccato originale, sebbene ne fu purificata, prima di nascere dal seno materno (o. c. III, q. 27, a. 2, ad 2); nel celebrare la festa della concezione, non si intende che fosse santa nella sua concezione, ma che, ignorandosi il tempo in cui fu santificata, si celebra, piuttosto, la festa della sua santificazione che quella della sua concezione (o. c. III, q. 27, a. 2, ad 3); nella stessa concezione di Cristo, in cui dovette brillare, per la prima volta, l'immunità dal peccato, dobbiamo credere che si produsse nella madre la soppressione totale del «fomes» per l'influenza del Figlio in lei (o.c. III, q. 27, a. 3).

Per quanto si ricorra alla visione aristotelica della concezione e della gestazione umana, ormai superata, come scusa per screditare la dottrina del santo in questo punto, sembra impossibile eludere la contundente ragione teologica che lo stesso brandisce contro l'immacolata concezione di Maria: la necessaria universalità della redenzione operata da Cristo; pertanto, affinché Maria potesse essere redenta, e poiché «redento» significa «caduto», doveva avere qualche mancanza o caduta, sebbene solo quella del peccato originale; così si vede anche la fallacia e l'assurdità di parlare di «redenzione preventiva» o «preservativa», che suona ancora peggio, applicata a Maria, poiché chi è stato prevenuto e non è caduto, come potrà essere redento o rialzato?; forse, ad esempio, si può raddrizzare ciò che non è storto?

Si potrebbe aggiungere che, se avessero ragione quanti sostengono che il papa cessa di esserlo, «ipso facto», nel deviare dottrinalmente, chi non potrebbe allora addurre che tanto deposto sarebbe rimasto Pio IX, nel definire, contro l'autorità dell'apostolo, il dogma dell'immacolata concezione di Maria, come Giovanni XXII, così come alcuni gli rimproverarono perché, predicando che i defunti non vedevano Dio fino dopo il giudizio finale, contraddisse la frase che Cristo rivolse al buon ladrone?; con l'aggravante che il primo arrivò alla pronuncia straordinaria.

Dalla questione fondamentale dell'immacolata concezione si può già vedere come con la corredenzione non solo si pretenda che Maria sia stata redenta preventivamente, ma che inoltre si esiga che la redenta sia anche corredentrice universale, il che contraviene al principio che nessuno dà ciò che non ha, poiché colei che necessiterebbe di ricevere la redenzione, sarebbe anche la sua emittente, e per di più si dovrebbe persino corredimere se stessa, dandosi ciò che, a sua volta, deve ricevere; inoltre, poiché la redenzione è, anzitutto, la riconciliazione con Dio, chi può riconciliarci con Dio, se non unicamente Dio stesso?; quello è precisamente uno degli argomenti capitali, brandito già dai padri della chiesa, per provare la divinità di Cristo, come unica forma affinché possa essere autentico redentore, riconciliandoci con se stesso; ma ovviamente Maria non è persona divina, e come allora ci riconcilierà con colui dal quale dista infinitamente?, e persino cosa potrebbe operare con un valore infinito qualcuno creato e finito, per compensare la giustizia divina di fronte all'offesa: quella sì che infinita, del peccato, fondata non nel peccatore ma nell'offeso?; in effetti, gli uomini possiamo fare qualcosa con un valore infinito, ma solo in senso negativo: il peccato, poiché il valore dell'offesa si misura, in realtà, da colui al quale è diretta, e non da chi la realizza, mentre positivamente, poiché l'operare segue l'essere, un essere finito come il nostro solo può produrre atti ugualmente finiti.

Se si obiettasse che la funzione di Maria sarebbe quella della mediazione redentrice o come uno strumento della redenzione, si risponde che, poiché la distanza tra il finito e l'infinito non è graduale ma radicale, non ci sono né passi intermedi né possibilità di mediazione alcuna per raggiungere dall'infinito il finito, ciò che coerentemente anche si dovrebbe applicare al «lumen gloriae», che, se è creato, come si innalzerà fino all'increato?, e, se è increato, come influirà sul creato?; per questo la stessa umanità di Cristo non influisce realmente sulla divinità, ma è uno strumento per esprimerla verso l'esterno; quella è la chiave della redenzione, che non consiste nel riajustare né equilibrare nulla dentro Dio, come si suole applicare alla sua giustizia e alla sua misericordia, poiché le qualità divine sono immutabili e totalmente coincidenti con l'essenza divina, per salvaguardare la sua semplicità; si evidencia allora il grande errore di pensare che Dio sarebbe come diviso tra la sua giustizia, che esigerebbe punire il peccato, e la sua misericordia, che preferirebbe perdonarlo, con il risultato che sarebbe l'umanità di Cristo quella che dovrebbe scaricare su di sé la giustizia che la misericordia vorrebbe evitare per l'umanità peccatrice; il problema è che ciò condurrebbe alla peggiore ingiustizia, impropria di Dio, per far ricadere il castigo su un innocente, per assolvere i colpevoli, il che va contro questa sentenza: Assolvere il colpevole, e condannare l'innocente, sono due cose che il Signore aborre (Pr 17, 15); la redenzione, pertanto, non si deve intendere come un movimento dall'esterno verso l'interno, poiché nulla di esterno può superare la trascendenza divina, ma dall'interno verso l'esterno, e lì è dove interviene instrumentalmente l'umanità di Cristo, la quale non può influire sulla divinità, ma sì esprimerla, e quello è il senso della passione di Cristo: non eccitare la misericordia divina, ma esprimerla insieme con la giustizia, in modo che il sofferenza di Cristo, che è un soggetto divino, esprime ciò che per la giustizia e la misericordia divine significa il peccato umano.

Si noterà certeramente che la divinità, per la sua perfezione, che esige la beatitudine, non può soffrire, e si risponde che per questo appunto una persona divina dovette assumere la natura umana: per poter soffrire, e così esprimere in questa ciò che non può soffrire in quella, né nemmeno poteva rimanere inespresso, per esigente della giustizia divina; resta chiaro allora che pretendere di adjudicare a una persona creata: Maria, ciò che solo una natura assunta da una persona divina può compiere, è un autentico sproposito, poiché si impone da sé l'impossibilità che un soggetto non divino esprima qualcosa di strettamente divino, quando è noto che, sebbene l'operazione derivi dalla natura, il suo principio ultimo è il soggetto o persona, in modo che la natura esprime il soggetto, ma non al contrario, né nemmeno un soggetto può esprimere un altro, ma, in ogni caso, rappresentarlo.

Dopo la corredenzione, si deve passare al titolo di Maria come mediatrice di tutte le grazie, e, poiché la questione della grazia è già stata trattata in una lettera precedente, sarà sufficiente ora considerare che, da un lato, la causa esclusiva di ogni grazia è Dio, poiché la soprannaturalità dell'effetto esige corrispondentemente quella della causa, e che, dall'altro, quella stessa soprannaturalità presuppone anche che la nostra posizione sia quella del mero ricevente passivo, poiché, come la conclusione segue sempre la parte peggiore, ogni attività nostra, essendo costitutivamente naturale, abbasserebbe, liquidandolo, il carattere soprannaturale dell'atto risultante; pertanto, come, in primo luogo, si potrà incrustare un intermediario naturale tra la causa soprannaturale e l'effetto, senza far sì che questo finisca per essere anche naturale?, e come, in secondo luogo, un soggetto umano, quando tutti devono essere meramente passivi, potrà acquisire una funzione attiva, per quanto strumentale, senza contaminare di naturalità l'atto, la cui soprannaturalità resterebbe dissolta dalla più minima aggiunta esterna che subisse?

Arrivati a questo punto così desolante, in cui tutti i titoli mariani sono stati tassativamente negati, si potrebbe chiedermi perché allora ho posto come costitutivo formale un titolo: quello dell'immacolata concezione di Maria, che, in realtà, non sarebbe valido, mentre quello che ho scartato: quello della sua maternità divina, si può provare sia dalla Bibbia, sia dalla ragione teologica; in effetti, già sua cugina santa Elisabetta le disse a Maria: Come mai la madre del mio Signore è venuta da me? (Lc 1, 43), quando «Signore», come sappiamo, è il nome sopra ogni nome, davanti al quale ogni ginocchio si piega, affinché ogni lingua confessi che Cristo Gesù è Signore a gloria di Dio Padre (Fil 2, 9-11); pertanto, poiché l'appellativo «Signore» indica la condizione divina di Cristo e il suo essere uguale a Dio (Fil 2, 6), si desume che chiamare «madre del Signore» Maria è equivalente a chiamarla «madre di Dio»; dall'altro lato, poiché è evidente che Maria è la madre di Gesù, che non è persona umana ma divina, si deve riconoscere che Maria è madre di una persona divina, la quale è, in assoluto, Dio, poiché le differenze personali sono solo relative; certamente si deve precisare che Maria non è madre della divinità né, quindi, madre di Dio in assoluto, poiché la natura divina o divinità manca di ogni principio, ma che la sua maternità divina è solo relativa, in quanto è madre di una sola delle persone divine: il Figlio, e questo in ragione dell'incarnazione di questo, per quanto la natura umana che lo stesso assunse, fu concepita da Maria; conseguentemente Maria in virtù della sua maternità divina si converte, diciamolo così, nel nodo che lega, e nel sigillo che conferma i misteri trinitari e cristologici definiti a Nicea, Efeso e Calcedonia, e allora perché insisto in un titolo che sarebbe invalido: quello dell'immacolata concezione di Maria?

Se si considera che la creazione, come anche insegna san Tommaso d'Aquino, è qualcosa nel creato solo quanto alla relazione, il che significa che la creazione nella creatura non è altro che una relazione reale con il creatore come principio del suo essere (o. c. I, q. 45, a. 3), e che, pertanto, la creazione attiva, che indica l'azione divina, e che è la stessa essenza di Dio, relativa alla creatura, ossia: la relazione di Dio con la creatura, non è reale ma solo di ragione, poiché solo la relazione della creatura con Dio è reale (o. c. I, q. 45, a. 3, ad 1), risulta che tutto il creato è, in ultima istanza, irreale per Dio, per quanto solo può essere reale per un termine ciò con cui questo può mantenere una relazione ugualmente reale, e ciò non si dà propriamente tra Dio e il creato, poiché, sebbene per il creato la relazione con Dio sia così reale che da ciò dipende la sua stessa realtà, per Dio, che non dipende realmente da nulla di esterno, e che, pertanto, non mantiene più relazioni reali che quelle trinitarie, che sono interne, la prospettiva cambia completamente, e il creato svanisce nella più assoluta irrealità; anche dalla considerazione dell'eternità divina e della temporalità del creato si arriva alla stessa conclusione, poiché è evidente che davanti all'eternità, che è pura simultaneità immutabile, la successione temporale, che non può essere indefinita, per opporsi alla necessaria definizione dei successivi, delimitati, in concreto, sia dal momento anteriore, sia da quello posteriore, scompare totalmente per lo stesso fatto che deve esserci un momento iniziale e anche uno finale, e allora cosa ci fu prima del primo?: nulla, e cosa ci sarà dopo l'ultimo?: nemmeno nulla, e alla nulla restiamo ridotti anche gli uomini, che evidentemente siamo parte della creazione?: non è meno evidente che davanti a Dio la creazione, con tutto ciò che contiene, non dà più di sé; per questo l'unica possibilità logica di intavolare una relazione reale con Dio è la salvezza, che già non è naturale ma soprannaturale, il che le permetterebbe di trascendere in qualche modo le limitazioni di ogni natura creata.

Il problema di considerare la salvezza come una relazione autenticamente reale con Dio è il pericolo di cadere nel panteismo, confondendo questa relazione con le altre anche reali per Dio: quelle già dette trinitarie; ora bene, poiché il costitutivo di Dio è la necessità, e così tutto ciò che è divino è necessario, e viceversa, basta, per superare lo scoglio menzionato, indicare il carattere possibile e non necessario di quella relazione salvifica, la quale resta allora sufficientemente distinta da quelle trinitarie, che, al contrario, sono completamente necessarie, e per questo anche divine, per la costituzione della stessa divinità.

Per non rimanere in meri nomi che, secondo il rasoio di Ockham, non apportrebbero realmente nulla, risulta, di ogni punto, imperativo stabilire realmente la menzionata possibilità, ciò che si consegue facendola dipendere da una condizione ugualmente reale, in modo che, adempiuta questa, si adempirà anche il senso positivo della possibilità, e, in caso contrario, passerà a adempiersi il negativo; quella condizione reale per la salvezza risiede precisamente nella creazione, la quale così già acquista una considerazione reale davanti a Dio, sebbene indirettamente, poiché la stessa viene a porre il fondamento affinché, rispondendo a Dio affermativamente, l'uomo adempia la condizione, e raggiunga la salvezza, o bene, rispondendo negativamente, si sprofondi nella perdizione.

Come la seguente nota costitutiva di Dio, dopo la necessità, è la perfezione, ciò che è ovvio, poiché Dio, di fronte a tutto il creato, che è limitato e imperfetto, è la somma perfezione, si segue che egli, per poter compiere l'opera salvifica, la quale, in quanto opera reale, per stabilire anche una relazione reale, deve essere perfetta in se stessa, precisa il compimento ugualmente perfetto, almeno in un caso, della condizione che sostiene la possibilità della salvezza, ciò che viene a significare che, sebbene la risposta umana creata debba essere limitata, al pari di tutto il creato, deve però essere perfetta come tale, cioè: priva di difetti o resistenze alla grazia, i quali supporrebbero una menomazione per la stessa grazia.

In questo punto trova tutto il suo senso quella stupefatta domanda che in certa occasione gli fecero a Gesù: Chi potrà allora salvarsi? (Mt 19, 25; Mc 10, 26, e Lc 18, 26); in effetti, se Dio precisa, come punto di partenza, una risposta perfetta, per poter dispiegare e culminare l'opera salvatrice, dove potrà reclamarla?; poiché si tratta già di un fatto che fa da condizione di possibilità del compimento di tutto l'insormontabile sviluppo teorico anteriore, non resta altro rimedio che ricorrere alla rivelazione biblica, nella quale effettivamente appare la risposta perfetta di Maria: Ecco la serva del Signore; si faccia di me secondo la tua parola (Lc 1, 38); tuttavia, questa risposta non appare nel luogo dove si sarebbe aspettato: all'inizio, ma molto tardivamente, ciò che solo può denotare che non fu lei la prima persona alla quale Dio richiese detta risposta, ma che tale persona fallì clamorosamente.

Da qui appunto si può già incastrare l'immacolata concezione di Maria con la sentenza paolina che raccomanda la necessità universale di redenzione, poiché, se non avesse fallito, quella prima persona almeno non avrebbe precisato nessuna redenzione, ma semplicemente avrebbe ricevuto la grazia che in giustizia Dio dà, affinché si possa rispondere; ma, una volta che si produsse una prima risposta imperfetta e, quindi, negativa, si esaurì completamente l'ordine della giustizia.

Nel piano dei principi, Dio, che è necessariamente perfetto, deve esserlo anche nelle sue opere, inclusa quella della salvezza, che, come si è detto, anche è un'opera reale per lui; tuttavia, poiché questa opera, a differenza delle processioni trinitarie, è solo possibile, per dipendere anche da un termine distinto da Dio stesso: il salvato, che è libero, e la può rifiutare, si segue, come esigente ineludibile, che deve esserci, almeno, un termine che risponda perfettamente, adempiendo senza resistenza alcuna la condizione dalla quale dipende la sua possibilità, poiché, altrimenti, nessun altro termine si salverebbe, per la semplice ragione che l'opera salvifica, non potendo darsi in perfezione, non si darebbe in nessun modo né in nessun caso; ma il piano dei fatti passa a considerare il compimento o no della condizione che sostiene ogni possibilità, e lì è dove la Bibbia ci dice, in primo luogo, che il piano primigenio di Dio non si compì, donde si colige la risposta fallita di, almeno, la prima persona alla quale Dio chiese quella risposta perfetta, e che potremmo denominare prima persona decisiva, e, in secondo luogo, che finalmente Dio poté trovare una persona che supplì alla precedente, dando la tanto agognata risposta perfetta, e convertendosi nella autentica persona decisiva; qualcosa di simile si insinua nelle parole che Mardocheo mandò trasmettere alla regina Ester: Se decidi di tacere, l'aiuto e la liberazione verranno ai giudei, da un'altra parte (Est 4, 14); pertanto, poiché, dopo la prima negativa, restò chiuso il regime della stretta giustizia, che permetteva un merito anche stretto della grazia, la quale allora era solo gratuita in quanto soprannaturale, unicamente restò margine per la misericordia che passasse sopra quella prima negativa, per continuare a offrire la grazia che permettesse ancora una risposta perfetta, come fu il caso di Maria; ora bene, poiché la misericordia solo può essere attivata dalla grazia redentrice, già abbiamo il senso preciso in cui Maria fu redenta: non perché lei fosse caduta, poiché la sua risposta fu, di fatto, perfetta, né perché fosse stata preservata dalla possibilità di cadere, poiché, non essendo impeccabile, avrebbe potuto perfettamente cadere, uguale a come cadde la prima persona, ma perché la grazia che produsse in lei quella risposta, non le arrivò in regime di giustizia ma di misericordia, che, come si è detto, si deve interamente alla redenzione.

Se si obiettasse che Maria dovette essere preservata, per poter dare la menzionata risposta perfetta davanti all'angelo, si risponde che, poiché, secondo quanto già detto, il tempo è totalmente irreale per Dio, mentre la risposta affermativa deve essere reale, sebbene indirettamente, in quanto condizione della relazione reale con lui, tale risposta non si dà propriamente nel tempo, dove solo si esprime, ma fuori dello stesso: in un momento intemporale, per poter essere ricevuta da colui che anche sta fuori: Dio stesso; per questo l'immacolata concezione di Maria è conseguenza della sua risposta perfetta, causata dalla pienezza della grazia che Dio le concede, e resa possibile dall'esenzione della marca del peccato originale: la degenerazione della natura umana, trasmessa per generazione, e così provocata dalla prima persona che rispose negativamente, di fronte alla quale già i padri della chiesa videro Maria come la nuova Eva; ora bene, quell'esenzione del danno nella natura, che è l'unica preservazione applicabile a Maria, già fu opera della misericordia, al pari della sua elevazione soprannaturale, senza le quali sarebbe stata impossibile la sua risposta perfetta, che così precisò dell'opera redentrice del suo Figlio, al pari di tutti gli altri dopo il primo fallimento.

Già si può intendere, in definitiva, il senso della frase paolina che tutti peccarono: dalla sua equivalenza con questa altra: Dio ci ha rinchiusi tutti nel peccato, per avere misericordia di tutti (Rm 11, 32), poiché, prodotto il peccato della menzionata prima persona decisiva, tutti, inclusa Maria, restarono affetti in qualche modo, che è ciò che permette di riconoscere la verità della prima frase, per quanto, come è noto dalla più elementare ermeneutica, l'inerranza biblica non suppone necessariamente la verità di tutti i sensi, ma si salva per una sola interpretazione vera che vi si adatti.

Dimostrata speculativamente l'immacolata concezione di Maria, come condizione di possibilità della salvezza universale, si possono addurre anche vari testi biblici che, intesi in tutta la loro profondità, risaltano il carattere singolarissimo di Maria; il primo è questa affermazione di san Paolo: Ci ha eletti in lui (…) , per essere santi e immacolati al suo cospetto (Ef 1, 4); la questione è che per noi stessi non abbiamo potuto essere eletti, perché lo impediva l'imperfezione della nostra risposta; per questo fummo eletti grazie a colei che fu santa e immacolata in modo pieno e fin dal principio, rendendo possibile l'incarnazione, affinché potessimo essere eletti nel suo Figlio, il quale, redimendoci, cancella in noi le conseguenze del peccato, e ci rinnova, affinché finiamo per essere anche santi e immacolati; il secondo è quello della salutazione dell'angelo: Piena di grazia (Lc 1, 28), poiché quella pienezza non si può intendere temporalmente, come si potrebbe dare in noi, poiché allora, in primo luogo, non sarebbe totale, per partire da una situazione diminuita, e, in secondo luogo, indicherebbe un'imperfezione iniziale, incompatibile con una risposta perfetta, e il terzo è la lode di sua cugina santa Elisabetta: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno (Lc 1, 41), dove si osserva un parallelismo tra la benedizione di Maria e quella del suo Figlio, ciò che non avrebbe senso se in quella ci fosse qualche imperfezione, che ovviamente avrebbe ripercosso in questo, e non si dica che, per preservare la natura umana di Cristo, sarebbe bastata la santificazione della madre giusto prima della concezione del Figlio, poiché, come in Dio non c'è tempo, e anche riguardo a noi tutto si compie in un unico momento, che è ciò che si addice all'unicità della simultaneità, solo la concezione immacolata della prima permette una concezione identica della successiva.

Si può vedere continuamente come la richiesta perfezione di Maria come prima persona decisiva efficace, espressa nella sua immacolata concezione, fonda tutto il resto, partendo dalla sua maternità divina, poiché è logico che colei che permette come condizione necessaria la redenzione e la salvezza, appaia come la madre del redentore e salvatore per il doppio motivo che senza di lei questo non avrebbe potuto realizzare nessuna redenzione né salvezza, né, quindi, avrebbe avuto senso la sua incarnazione, e nemmeno avrebbe potuto essere redento né salvato nessun altro, donde si deriva la funzione determinante di Maria nell'opera redentrice e salvifica, tale come, in ammirabile sintesi, delinea san Giovanni con l'appellativo «donna» sulle labbra di Gesù, e che, riferito a Maria, forma tutto un arco che apre nelle nozze di Cana (cf. Gv 2, 4), e chiude al Calvario il ministero pubblico di Gesù (cf. Gv 19, 26-27), in modo che colei che all'inizio era solo donna, con il carico che ciò implica in riferimento allo stesso Cristo come Figlio dell'uomo, finisce per convertirsi in madre proprio nel momento in cui consegna in sacrificio il Figlio naturale, e riceve come figlio soprannaturale colui che rappresenta tutti gli uomini, i quali ricevono la nuova vita, da un nuovo padre: lo stesso che poco prima aveva chiamato gli apostoli «figlioli miei» (Gv 13, 33), e da una nuova madre: la stessa nuova Eva alla quale si riferivano i padri della chiesa: quella dalla quale con verità già si può dire che è madre di coloro che realmente vivono (cf. Gn 3, 20), poiché colei che diede alla luce senza dolore il redentore, per essere libera da ogni peccato e dalle sue conseguenze (cf. Gn 3, 16), diede, invece, alla luce i redenti tra grandi dolori, permettendo, non rifiutando di consegnarlo, ma accompagnandolo fino alla fine, che Cristo si costituisse in redentore sull'ara della croce (cf. Gv 19, 25, e Ap 12, 2); da lì che la corredenzione e la mediazione per tutte le grazie non possono che fondarsi debitamente nella necessità che ha Dio, di una prima risposta perfetta, con tutto ciò che questa, per emendare anche le negative anteriori, suppone di abnegazione assoluta e dolorosissima, e la cui comprensione fa sì che tutto il resto acquisti senso, confermando la tesi che l'immacolata concezione di Maria, che esprime la perfezione della sua risposta, è il costitutivo formale mariologico.

Evidentemente, se la prima persona avesse risposto satisfacentemente, non sarebbe servita nessuna redenzione, fino a quando non si fosse data qualche imperfezione nella risposta di un'altra persona; ma il fallimento senza paliativi della prima fece sì che già tutte le altre, inclusa la Vergine Maria, necessitassero della redenzione, per ricevere qualsiasi grazia; detta redenzione, che ci raggiunse la grazia redentrice, che è una grazia misericordiosa, fu operata esclusivamente da Cristo, la cui natura umana si costituisce nella nostra testa, e così ci unisce come membri, e la cui persona divina ci raggiunge, secondo quanto spiegato, la riparazione infinita di ogni rifiuto e resistenza alla grazia; nondimeno, resterebbe il dubbio del perché l'apostolo dovette dire queste, quanto meno, strane parole: Soffro nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo (Col 1, 24), poiché cosa potrà mancare all'opera di una persona divina, che, sebbene sia limitata dallo strumento della natura umana, è illimitata dal suo valore come espressione autentica della misericordia e della giustizia divine?

Vi sarà chi addurrà che ciò che manca, è la nostra accettazione della grazia redentrice; ma ciò dipende da ciascuno in particolare, e non avrebbe senso che la frase citata si completasse così: Per il suo corpo, che è la chiesa, poiché la risposta di ciascuno dipende, in ultima istanza, da lui stesso, e ciò, per il carattere intrasferibile di ogni persona, nessuno lo può supplire; allora si potrebbe fare qualcosa, affinché un'altra persona potesse rispondere meglio, non frustrando la grazia redentrice?

La risposta sta nel fatto che, sebbene si dica che la redenzione ha un valore illimitato, come opera di una persona divina, e nella quale si esprimono perfettamente la giustizia e la misericordia divine, non si può, tuttavia, dire che la grazia redentrice sia infinita, poiché tutto il creato, come lo è quella grazia, deve essere, per forza, finito, ciò che spiega che possiamo resisterle e persino rifiutarne; allora la questione è quanta grazia riceverà ciascuno, o con quanta intensità gli arriverà, poiché tutto il finito ha ragione di più o meno; senz'altro, uguaglianza non c'è, come si vede, ad esempio, nella parabola dei talenti (Mt 25, 14-30), con ciò che si può dire che Dio, all'ora di dare, è il più ingiusto, sebbene poi, all'ora di chiedere, compensa, con larghezza, l'ingiustizia iniziale, poiché a chiunque molto fu dato, molto sarà richiesto (Lc 12, 48); conseguentemente in ragione di che Dio dà a unos più grazia che ad altri?; quella ragione si chiama comunione dei santi, consistente nell'instaurazione gerarchica di un ordine nella chiamata alla salvezza, per quanto la grazia arriva a ciascuno, dipendendo dalla risposta di altri, ciò che fa sì che effettivamente tutti siamo interconnessi salvificamente, come è proprio di un corpo i cui membri si trovano ben legati e ordinati tra loro (cf. 1Cor 12, 12).

La ragione ultima che giustifica quel procedere da parte di Dio è il fatto che egli non è arbitrario, ma fonda tutto razionalmente, e per questo, come si è detto, non fa accezione di persone, ma ciò che, a prima vista, sembra un privilegio, poi, in ultima istanza, non lo è, ma i ruoli sono carichi; da qui, sebbene la grazia redentrice di Cristo abbia un potenziale immenso e sia più che sufficiente per provocare in tutti una risposta perfetta, la sua intensità possa poi arrivare abbastanza diminuita, poiché la maggiore o minore docilità di coloro che precedevano nel piano della comunione dei santi, facendo come canali, già ampi o stretti, dell'unica grazia di Cristo, influenza determinantemente la sua intensità finale; in quel senso, si può dire che tutti i precedenti anelli sono co-redentori dei successivi, poiché è stato attraverso i primi e la mediazione della loro risposta che la grazia redentrice è arrivata agli ultimi, e non si potrà dire, nello stesso senso, che Maria: la persona che finalmente diede la risposta necessaria richiesta da Dio, non è anche co-redentrice, e proprio nel massimo rango di quella scala, poiché senza la sua risposta semplicemente non ci sarebbe stata, di fatto, nemmeno grazia redentrice in nessun grado di intensità, ma questa sarebbe rimasta completamente frustrata e non sarebbe arrivata assolutamente a nessuno?; come Maria, in sintesi, non sarà co-redentrice, quando, grazie a lei, c'è stata, di fatto, incarnazione e, quindi, redenzione e salvezza?; ella è allora co-redentrice di tutti gli altri, solo a un altro livello di quello di colui che, se non si fosse fatto suo Figlio, non avrebbe potuto essere né redentore né salvatore di nessuno.

Dimostrata la funzione veramente cruciale di Maria come efficace canale di tutte le grazie, sebbene ovviamente non come fonte, che è funzione esclusiva di suo Figlio, come non potrà essere chiamata anche lei, con tutta ragione e giustizia, mediatrice di tutte le grazie, se proprio attraverso di lei ci è venuto colui che, incarnato in lei, che così ha fatto madre di Dio, è il medesimo zampillo di ogni grazia, e che attraverso sempre di lei, come di un canale pristino e senza alcun ostacolo, fa fluire tutta la grazia che arriva fino all'ultimo uomo?; di quale grazia non sarà mediatrice lei, se non c'è grazia alcuna che non arrivi attraverso di lei?

Solo resta ora mettere i punti sulle i, per delimitare ciò che si può dire di Maria e precisare strettamente in che modo a lei si possono applicare gli appellativi di co-redentrice e mediatrice di tutte le grazie; così ella non può essere co-redentrice attiva, ma solo passiva, poiché nessuno di fronte alla grazia si pone se non unicamente in modo passivo, salvo che allora ciò che faccia sia resistere, né è lei causa della redenzione: funzione esclusiva di suo Figlio: il Verbo incarnato e il redentore, ma, quindi, bisognerà dire che è co-redentrice in senso subordinato, meramente passivo e come condizione necessaria, sebbene non esclusiva, cioè: per la sua risposta perfetta, che è ciò che Dio necessitava perentoriamente in almeno un caso, indipendentemente da chi gliela desse, solo che, come di fatto fu lei, è anche lei che arrivò a compiere la funzione neurálgica affinché anche la redenzione potesse realmente compiersi, e è lei che permise e così fonda tutto il piano salvifico reale, fuori del quale non c'è assolutamente nessuna grazia né possibilità alcuna di salvezza.

In questo modo si risolvono le obiezioni iniziali, poiché, non essendo causa attiva della redenzione, è evidente che Maria non deve più produrre la redenzione che lei stessa riceve, ma, ricevendola in pienezza, semplicemente si converte in canale adeguato che la deriva verso tutti, né è propriamente il soggetto produttore della nostra riconciliazione con Dio, ma permette che detto soggetto, incarnandosi in lei, la produca e la estenda a tutti; da qui Maria può anche essere denominata «sub-redentrice», per enfatizzare il diverso livello del suo contributo, ciò che però non le toglie un ápice di trascendentalità.

Infine, sono perfettamente consapevole che, aderendo a queste conclusioni, con le quali ho solo preteso di adempiere la raccomandazione, fatta da san Pietro, di dare ragione della speranza (cf. 1P 3, 15), mi posiziono contro l'obbedienza che all'inizio reclamai per il documento magisteriale trattato; ma forse anche questo documento non si è posto di fronte alle dichiarazioni di precedenti papi, come lo stesso documento riconosce nel punto 18, e che, pur senza la contundenza di questo documento nel negarli, affermavano i titoli disputati a Maria?; con quale papa restiamo allora?; questa è, una volta di più, l'acca situazione, che ultimamente sembra convertirsi in norma, di opposizione tra l'insegnamento attuale e quello precedente; questo sì: il presente non è affatto il caso più conflittuale, come già particularizzai nella lettera che alla materia dedicai; ma si dà la casualità che ora si è trattato un tema estremamente sensibile: il mariologico, che, per me, è specialmente non negoziabile, poiché certamente di Maria non potremo mai dire abbastanza, adempiendo la sua stessa profezia di lodarla (cf. Lc 1, 48), noi che, dopo a Dio, tutto glielo dobbiamo a lei, e più quando senza di lei Dio non avrebbe potuto salvarci, e allora più ci sarebbe valso non essere nemmeno nati (cf. Mt 26, 24), poiché di che ci servirebbe essere nati, se non fossimo stati redenti? (Pregone pasquale).

Più bellamente ancora lo espresse san Anselmo: Tutto ciò che nasce è creatura di Dio, e Dio nasce da Maria; Dio creò tutte le cose, e Maria concepì Dio; Dio, che fece tutte le cose, si fece se stesso mediante Maria, e in questo modo rifece tutto ciò che aveva fatto; colui che poté fare tutte le cose dal nulla, non volle rifare senza Maria ciò che era stato macchiato; Dio è dunque il padre delle cose create, e Maria è la madre delle cose ricreate; Dio è il padre a cui si deve la costituzione del mondo, e Maria è la madre a cui si deve la sua restaurazione, poiché Dio generò colui per il quale tutto fu fatto, e Maria partorì colui per il quale tutto fu salvato; Dio generò colui senza il quale nulla esiste, e Maria partorì colui senza il quale nulla sussiste; veramente il Signore è con te, per aver fatto che ogni creatura ti dovesse tanto quanto a lui (Sermone 52).

Chi non comprenderà allora che mettersi a lesinare titoli a una tale persona, benedetta sopra ogni ponderazione, suppone un completo squilibrio dottrinale?, poiché a colei che ha l'appellativo più sublime di tutti: quello di madre di Dio, che sì glielo concedo a quel titolo, sebbene non sia il costitutivo formale mariologico, che onore si le potrà legittimamente negare, quando la seconda persona della santissima Trinità l'ha equiparata, in qualche modo, al suo amatissimo Padre eterno e generatore?; come allora non la equiparerà, in qualche modo anche, in santità e rilevanza salvifica alla terza persona, procedente dalle due precedenti?

I pneumatomachi di un tempo si sono trasformati nei mariomachi di oggi; ma si avverta che coloro che non militano sotto le bandiere della signora senza pari, lo fanno sotto quelle del serpente primordiale, divenuto già drago colossale (cf. Ap 12, 9).

Un appellativo che, certo, non è acertato applicare a Maria è quello di «onnipotenza supplicante», ma perché, in primo luogo, non c'è onnipotenza salvifica alcuna, ma la salvezza dipende determinantemente dal proprio soggetto, e, in secondo luogo, il suo potere non è arbitrario, ma fondato nell'umiltà: la propria e quella di colui che possa ricevere i suoi favori salvifici.

Non voglio concludere senza delineare, al filo di quanto precede, e come corollario, un'idea molto importante per intravedere la grandezza di Maria e l'imponderabile convenienza di professarle una autentica devozione, ed è quella che, mentre Dio nella sua perfezione necessaria non può fare nulla senza fondarlo razionalmente in modo meticoloso, ciò che non ammette eccezione alcuna, Maria, tuttavia, per ragione della sua perfettissima risposta, data liberamente, conta con amplissima facoltà per prendersi grandi licenze in bene sempre di coloro che, diciamolo così, si guadagnano la sua simpatia dalla stessa qualità in cui lei è la regina assoluta, e che è quella che anche più affascina Dio: l'umiltà mentovata; in effetti, tanto gradito fu per Dio che, dopo la sublime incarnazione, che si andò a produrre prima che si completassero i tradizionali sponsali ebraici, lei accettasse, da una parte, passare davanti a praticamente tutti, poiché solo a san Giuseppe apparve l'angelo per dargli le opportune spiegazioni (cf. Mt 1, 20-21), come spregevole peccatrice pubblica (cf. Lm 1, 11b-12; 2, 13, e Gv 8, 41), e, dall'altra, permettere gli atroci e redentori sofferimenti di Cristo, che lei in gran parte accompagnò (cf. Gv 19, 25), senza contare ovviamente con il sostegno della personalità divina, che rendeva impossibile la minima incertezza nell'adempimento della missione, ma solo miracolosamente sopravvisse alla lancia nel corpo morto del Figlio (cf. Lc 2, 35, e Gv 19, 34), che per tutto ciò quello le ha conferito il potere per, facendo da canale diretto che supplisce le deficienze nell'intreccio della comunione dei santi, dispensare a discrezione immense quantità di grazia che lei impiega sempre per la salvezza e maggiore santificazione di quanti eccellono, in qualche modo, nell'umiltà; per questo la devozione sincera a Maria forse è il segnale più chiaro di predestinazione, poiché lei suole arrivare persino a scusare e amparare grandi peccatori per fragilità, se vede umiltà sufficiente per innalzarli ad altissime quote di santità (cf. Mt 23, 12, e Lc 14, 11, e 18, 14); questo è così perché, sebbene Dio misericordiosamente perdoni la colpa, liberando dalla condanna, la sua giustizia, tuttavia, esige inflessibilmente che si paghi fino all'ultimo quarto della pena (cf. Mt 5, 26), poiché la sua santità impone la necessità della totale purificazione (cf. Ab 1, 13), mentre Maria ha potestà per, basata nell'umiltà, privilegiare certe persone, facendogli arrivare molta più quantità di grazia e misericordia, ed esimerle da gran parte della pena meritata, per cui si vede che, solo avendo catturato l'attenzione pia di Maria, si può raggiungere la predilezione di Dio (cf. Gv 19, 26), poiché lei è la prediletta per diritto proprio (cf. Ct 6, 9); da qui che, come contrapartida a quanto precede, negarsi a riconoscere Maria, e a lodarla, e persino arrivare a offenderla, incumplendo così la profezia, già allusa, che lei stessa fece, è, al contrario, il segnale più terribile di riprovazione; non sanno, dunque, i tiepidi e gli eretici il gran bene di cui per la loro empietà si privano, e il grave rischio in cui, stolti, incorrono, per non unirsi con riverente umiltà alla vera e totale glorificazione di Maria: la campionessa dell'umiltà, e per ciò la più temibile avversaria di colui che, a sua volta, per la superbia è l'avversario di Dio, e, non essendo stupido, già ha assunto che non può metafisicamente vincerlo, non ponendo allora interesse se non in ciò che pensa sia la maggiore umiliazione per Dio: che debba vedere come l'umiltà, che è il fondamento della carità, e così la più fondamentale di tutte le virtù, solo consegue la condanna di moltissimi che si negano a praticarla, e appena spicca negli stessi che a duras penas riescono a salvarsi; per questo sarà Maria quella che, vindicando la gloria di Dio, per ingrandirlo adeguatamente (cf. Lc 1, 46), umilierà il precedente, schiacciandogli con il piede nudo: segno dell'umiltà, la eretta testa: segno, a sua volta, della superbia (cf. Gn 3, 15, e Ap 12, 17), e quella che, per mostrare il valore dell'umiltà: tanto maggiore quanto minore si riconosca (cf. Mt 17, 20, e Lc 17, 6), concede agli umili e semplici un galardone gratuito e come supererogatorio che, per superare i termini precisi, non è direttamente nelle mani di Dio, che, pur compiacendosi nell'umiltà e nella semplicità (cf. Mt 11, 25, e Lc 10, 21), è vincolato dalle rigide regole della propria giustizia, ma in quelle di colei che, avendo superato, anche supererogatoriamente, ogni marca per l'umiltà, le permette ora a Dio placare il rigore con una sovrabbondante effusione di misericordia e di grazia (cf. Rm 5, 20).

 

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