La scelta dell’arcivescovo Paul Stagg Coakley come nuovo presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti (USCCB) segna un punto di continuità nella direzione dottrinale dell’episcopato nordamericano e, allo stesso tempo, offre chiavi interessanti sulle sensibilità liturgiche e spirituali del prelato che guiderà la Chiesa statunitense nei prossimi anni.
Nato nel 1955 a Norfolk (Virginia) e ordinato sacerdote nel 1983 per la diocesi di Wichita, Paul S. Coakley ha sviluppato il suo ministero in Kansas prima di essere nominato vescovo di Salina nel 2004. Nel 2010 è stato designato arcivescovo di Oklahoma City, arcidiocesi che dirige da allora. Con anni di lavoro in comitati della USCCB, leadership in iniziative di carità internazionale e una reputazione di prudenza dottrinale, Coakley si è consolidato come una delle voci più stabili dell’episcopato conservatore nordamericano. Il suo motto episcopale, Duc in altum, riassume bene il suo stile pastorale: sobrio, centrato sul recupero dei fondamenti e sull’evitare rotture inutili.
Coakley è noto per i suoi interventi fermi su temi centrali della Dottrina Sociale della Chiesa. Nel campo della difesa della vita, ha denunciato ripetutamente l’aborto come un male intrinseco, senza ambiguità. Allo stesso tempo, ha sottolineato che l’applicazione della pena di morte contribuisce a indurire la società e ha espresso una riserva chiara verso il suo uso, senza cadere in equiparazioni strane. In materia di immigrazione, ha avvertito degli effetti disumanizzanti delle politiche di deportazione di massa e ha ricordato che la tradizione statunitense si è costruita grazie a generazioni di immigrati che sono arrivati nel paese in cerca di migliori condizioni di vita. La sua posizione pubblica mantiene un equilibrio delicato tra la difesa dei principi non negoziabili e l’attenzione pastorale ai gruppi vulnerabili, senza cedere a polarizzazioni puramente ideologiche.
Oltre a ciò che riflettono i suoi profili ufficiali, Coakley possiede venature formative che raramente appaiono nei media generalisti, ma che aiutano a comprendere parte della sua sensibilità spirituale. Fonti vicine al prelato confermano che l’arcivescovo è stato discepolo di John Senior, il celebre pensatore che ha segnato diverse generazioni di cattolici statunitensi per la sua difesa della tradizione, della cultura classica e della centralità della vita monastica come radice della civiltà cristiana. Inoltre, ha avuto un breve periodo di vita monastica nell’abbazia di Fontgombault, uno dei monasteri benedettini più influenti del rinascimento liturgico tradizionale del XX secolo. Questi dettagli, non menzionati abitualmente nelle sue biografie pubbliche, spiegano la familiarità e la naturalezza con cui si muove in ambienti dove la tradizione liturgica è vissuta senza tensioni ideologiche.
In relazione alla liturgia tradizionale, Mons. Coakley è descritto da chi lo conosce come molto amichevole verso la messa tradizionale. Non si tratta di un «vescovo tradizionalista» nel senso mediatico del termine, ma sì di un prelato che non identifica la forma straordinaria del rito romano con divisioni o «battaglie culturali», e che la considera parte legittima della ricchezza liturgica della Chiesa. La celebra occasionalmente e mantiene un rapporto stretto con comunità che vivono la tradizione liturgica in piena comunione con la Chiesa. L’anno scorso, durante la nota peregrinazione di Clear Creek, Coakley ha assistito nel coro alla messa di chiusura celebrata da Mons. Athanasius Schneider. La sua presenza, silenziosa, senza protagonismi e senza annuncio pubblico, è stata molto apprezzata dai fedeli, che l’hanno interpretata come un gesto di vicinanza a quel mondo spirituale, privo di qualsiasi intento di strumentalizzazione.
La USCCB vive anni complessi, segnati da tensioni interne su priorità pastorali, dibattiti intorno al ruolo della tradizione liturgica, sfide nel campo della bioetica, dell’educazione cattolica e della libertà religiosa, nonché da relazioni delicate con Roma su questioni dottrinali e disciplinari. La scelta di Coakley punta a un episcopato che desidera stabilità dottrinale e serenità strategica. Non è un agitatore né un gestore puramente tecnocratico; è, anzitutto, un pastore di convinzioni chiare, con una vita spirituale profonda e con sensibilità per comprendere che il rinnovamento della Chiesa passa tanto per la missione quanto per la tradizione.
Il nuovo presidente dell’episcopato statunitense combina in modo poco frequente ortodossia dottrinale senza stridore, serietà intellettuale con radici nella tradizione classica e una vicinanza reale alla liturgia tradizionale e alla vita monastica. La sua leadership sarà chiave nei prossimi anni, specialmente in un paese dove la Chiesa si gioca buona parte della sua identità di fronte a pressioni culturali e politiche intense. Il tono discreto di Coakley non deve ingannare: la sua formazione e la sua traiettoria suggeriscono che, sotto la sua presidenza, la USCCB cercherà chiarezza senza confronto e, forse, una rinnovata attenzione al tesoro spirituale della tradizione cattolica attaccato da Traditionis Custodes e da un’ondata di divieti e persecuzioni.
