Leone XIV contro Leone XIII

Two Seated Lions by Albrecht Dürer, 1521 [Kupferstichkabinett, Berlin]

Di Michael Pakaluk

Il Papa Leone XIV ha scelto il suo nome per segnalare la sua vicinanza a Leone XIII, e tuttavia, nella sua recente esortazione apostolica Dilexi te, le sue affermazioni sembrano a volte contraddire il suo predecessore: sulla radice dei mali sociali, il superamento della povertà e la proprietà privata.

Per Leone XIV, la radice dei mali sociali è la disuguaglianza. Ribadendo Francesco, afferma: Posso solo ripetere ancora una volta che la disuguaglianza ‘è la radice dei mali sociali’ (n. 94). Ma per Leone XIII, nella sua prima enciclica Sui mali della società (Inscrutabili Dei consilio), la radice dei mali sociali è piuttosto il rifiuto del cristianesimo da parte dei poteri civili: la fonte dei [mali] sociali risiede principalmente, ne siamo convinti, in questo: che la santa e venerabile autorità della Chiesa, che in nome di Dio governa l’umanità, sostenendo e difendendo ogni autorità legittima, è stata disprezzata e allontanata (n. 3).

La differenza non è piccola, perché se il cristianesimo non è necessario, allora, per eliminare i mali sociali, basterebbe che i poteri civili eradichino le strutture di peccato, cioè le strutture di disuguaglianza. Ma se il cristianesimo è necessario, allora la politica più importante di un potere civile dovrebbe essere promuovere, o almeno facilitare, la fede e la pratica cristiane (ad esempio, rendendo facile, e non difficile, che i genitori mandino i loro figli a scuole religiose).

In Rerum novarum, Leone XIII insegnò che la ricerca dell’uguaglianza è un sogno irrealistico del socialismo: la condizione delle cose, inerente agli affari umani, deve essere sopportata, perché è impossibile ridurre la società civile a un livello morto. Esistono naturalmente tra gli uomini differenze multiple delle più importanti; le persone differiscono in capacità, abilità, salute, forza; e la fortuna disuguale è una conseguenza necessaria della condizione disuguale (n. 17).

Se qualcuno dicesse, in risposta, che la disuguaglianza a cui si riferisce Leone XIV, seguendo Francesco, non è quella dei risultati o dei possedimenti, ma quella del riconoscimento davanti alla legge e della dignità umana, allora la natura della povertà cambia radicalmente, e i membri più poveri delle nostre società sarebbero i non nati, perché sono loro a cui viene negata in modo più generalizzato la loro uguale dignità umana in tutto il mondo. Ne seguirebbe allora che la opzione preferenziale per i poveri della Chiesa deve assumere la forma di dare priorità alla causa pro-vita.

Quanto al superamento della povertà, ricordiamo che Leone XIII era ben informato sulla scienza economica del suo tempo grazie al suo assistente, il P. Matteo Liberatore, S.J.

L’opera di Adam Smith inizia proprio con l’osservazione che alcuni paesi stanno uscendo dalla povertà e altri no, e si chiede cosa spieghi la differenza.

Nelle lezioni di economia attuali si inizia di solito con la presentazione della grafica del bastone da hockey, che mostra l’incredibile crescita economica mondiale degli ultimi 300 anni, e si pone la domanda: cosa la spiega? La risposta, accettata sia dal P. Liberatore che dal Papa Leone, è la difesa del diritto alla proprietà privata da parte del potere civile, e il suo riconoscimento che gli individui nella loro attività economica, e le famiglie, sono anteriori allo Stato, cioè una società libera e un mercato libero. Lo Stato ha un ruolo nel correggere abusi come giornate di lavoro oppressivamente lunghe, ma, in generale, una retta amministrazione dello Stato dovrebbe essere sufficiente (nn. 32-33).

Ma la posizione di Leone XIV sembra negare l’importanza di quella grafica del bastone da hockey: L’affermazione che il mondo moderno ha ridotto la povertà si basa su criteri di misurazione della povertà del passato che non corrispondono alle realtà attuali (n. 13). Insiste che la povertà deve essere definita non in termini assoluti, ma relativi al livello di vita di una nazione in particolare.

Tuttavia, se i processi di mercato per la creazione di ricchezza non hanno diminuito la povertà (in quella comprensione), ne segue che qualsiasi fiducia che potessero continuare a farlo in futuro deve essere prodotto di pure ideologie. E queste vengono descritte in modo caricaturale, senza corrispondere a nessuna posizione sostenuta da una persona responsabile oggi: come la difesa dell’autonomia assoluta del mercato (n. 92), o l’idea che il pensiero economico ci impone di aspettare che le forze invisibili del mercato risolvano tutto (ibíd.).

Questo apparente rifiuto del libero mercato risulta più sconcertante perché, verso la fine della sua esortazione, dove Leone fa un appello all’elemosina, dice prima che, naturalmente, è meglio trovare un lavoro per un povero che dargli elemosina (n. 115). Tuttavia, non possiamo trovare impieghi per i poveri se qualcuno non li crea prima. Così, sembra che anche meglio dell’elemosina, per servire i poveri, sarebbe lo spirito di investimento e di imprenditorialità, nel quadro di un mercato ben regolato.

Poi Leone sembra differire anche da Leone per quanto riguarda la centralità del diritto naturale alla proprietà privata. Leone XIII credeva che sia i ricchi che i poveri fossero assediati dall’avidità, e che, per i poveri, l’avidità assumeva spesso la forma di voler semplicemente prendere dai ricchi ciò che è necessario per le loro necessità, invece di lavorare per avere qualcosa da offrire in cambio.

Dilexi te, di Leone XIV, invece, contiene quanto segue: Perciò, ogni uomo ha diritto a possedere una quantità sufficiente dei beni della terra per sé e la sua famiglia… Le persone in estrema necessità hanno diritto a prendere ciò di cui hanno bisogno dalle ricchezze altrui (le ellissi sono nell’originale).

La seconda frase è una citazione di Gaudium et spes (n. 69), dove una nota a piè di pagina fornisce tutte le spiegazioni necessarie e un riferimento a San Tommaso d’Aquino, per evitare interpretazioni maligne. Qui, tuttavia, non viene data una tale nota. Inoltre, il linguaggio dei Padri conciliari è sottile (sibi procuret) e non significa semplicemente prendere in senso letterale.

Ma ora, se si combina questa affermazione —senza qualificazioni— con l’idea che non esiste uno standard assoluto di povertà, e quindi nessuno standard assoluto di necessità estrema, il risultato è, per dirla con garbo, inquietante.

Sui mali sociali, la povertà e la proprietà —che i Leoni ruggiscano all’unisono.

Sull’autore

Michael Pakaluk, studioso di Aristotele e Ordinarius della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, è professore di Economia Politica alla Busch School of Business della Catholic University of America. Vive a Hyattsville, MD, con sua moglie Catherine, anch’essa professoressa alla Busch School, e i loro figli. La sua raccolta di saggi, The Shock of Holiness, sarà pubblicata il 25 agosto con Ignatius Press. Il suo libro sull’amicizia cristiana, The Company We Keep, sarà pubblicato questo autunno con Scepter Press. Entrambi sono disponibili per il preordine. È stato collaboratore di Natural Law: Five Views, pubblicato da Zondervan lo scorso maggio, e il suo libro più recente sul Vangelo è uscito con Regnery Gateway a marzo, Be Good Bankers: The Economic Interpretation of Matthew’s Gospel.

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