Lute ha riconosciuto di aver abusato di bambine ma non lo considera un reato perché non c'è stata penetrazione

Lute ha riconosciuto di aver abusato di bambine ma non lo considera un reato perché non c'è stata penetrazione

Le registrazioni e le testimonianze dell’indagine ecclesiastica sul sacerdote Eleuterio Vásquez González, noto come Padre Lute, mostrano un fatto incontestabile che si aggiunge al cumulo di assurdità di cui Infovaticana sta informando: l’aggressore ha riconosciuto gli abusi commessi contro minori a Chiclayo, ma non li considera un delitto perché, nella sua visione, non c’è stato un “atto sessuale completo”.

Il riconoscimento esplicito

Il delegato della Diocesi per il caso, Giampiero Gambaro, lo ha spiegato chiaramente alle vittime il 23 aprile 2025 in una conversazione in cui cercava di convincerle ad accettare che il caso non venisse giudicato e che Lute evitasse la giustizia attraverso l’accettazione di una dispensa dallo stato clericale:

“Il problema è che il padre Eleuterio non considera quei fatti un delitto. Non li considera un delitto. Ed è per questo che dicono che non ci sono prove, che non ci sono… non lo considera. Può darsi che lo abbia considerato come un peccato, questo nel suo foro interno non ci interessa. Ma non lo considera un delitto, perché i fatti oggettivi in sé, per lui, non sono un delitto. L’abuso sessuale per questo tipo di mentalità, un po’ maschilista, un po’ narcisista, eccetera, è solo l’atto sessuale completo. Allora, di cosa sono colpevole? Di nulla. Non esiste delitto”.

In quelle parole c’è un ammissione doppiamente grave. Da un lato, lo stesso delegato riconosce che il sacerdote ammette di aver commesso atti di abuso sessuale contro le bambine —nei casi più gravi, di 9 e 11 anni—. Dall’altro, conferma che l’abusatore non li percepisce come un delitto. Si tratta, quindi, di un riconoscimento esplicito dei fatti, accompagnato da una minimizazione morale che sfuma il confine tra peccato e crimine.

Gambaro arriva persino a riflettere sulla mente dell’aggressore, come se la sua percezione giustificasse in parte la situazione:

“Questo è grave, è grave per il tipo di formazione che ha. Che hanno i sacerdoti… perché qui è il tema un po’ più grande, ma è la formazione dei sacerdoti che sono a Chiclayo… e per una persona così, con questo profilo, il fatto di non poter celebrare la Messa, di non poter essere il leader della comunità, di essere acclamato come il genio della devozione del miracolo eucaristico… non far parte di quella cosa che appare sui social… beh, non è facile, no?”.

Il tono, che pretende di essere analitico, finisce per trasmettere empatia verso la vittima. Invece di focalizzarsi sulle vittime, si descrive con compassione la sofferenza del sacerdote per non poter celebrare la Messa, come se quella perdita ministeriale fosse paragonabile al trauma degli abusi.

Una gerarchizzazione del dolore

A novembre 2023, il sacerdote Julio Ramírez, delegato della diocesi di Chiclayo designato da Robert Prevost per comunicare con le vittime, aveva già trasmesso alle vittime lo stesso argomento di minimizzazione per l’assenza di penetrazione negli abusi.

“nel caso della Chiesa si è preso il testimonianza, si è portato laggiù, ma non si è fatto altro. Sappiamo che il Papa non archivia casi di violenza sessuale, ma… Non voglio che suoni male, né lo stiamo difendendo, ma come non è arrivato a una situazione… so che è traumatico quello che hanno vissuto, ma non sono arrivati a una situazione di una violazione propriamente detta, come che hanno dato priorità ad altri casi che sì sono con una complicazione forte. Per cui quello è quello che so e quello è quello che mi ha commentato Monsignore… sembra che Roma abbia dato priorità a casi con situazioni più forti”.

Queste affermazioni costituiscono un testimonianza di negligenza ecclesiale impropria di una Chiesa che nel 2022 e 2025 dovrebbe aver imparato la lezione. È improprio che si trasmetta ufficialmente alle vittime che il loro caso “non merita priorità” perché “non c’è stata una violazione propriamente detta”. Dal punto di vista giuridico e morale, questo equivale a una banalizzazione dell’abuso sessuale e a una negazione della sua gravità intrinseca.

Negligenza vestita di linguaggio pastorale

Il discorso di entrambi i rappresentanti ecclesiali, Gambaro e Ramírez, rivela lo stesso schema: ammettere i fatti ma sottrargli peso penale e morale. Invece di riconoscere che qualsiasi contatto sessuale forzato, coercitivo o abusivo costituisce un delitto grave e che la Chiesa deve perseguirlo fino alle ultime conseguenze, si introduce una scala di “gravità” che concederebbe più attenzione ai casi con penetrazione, e propone di accontentarsi di archivi opachi e dispense in frode di legge.

Quel approccio contraddice sia il diritto civile che il diritto canonico. Secondo il canone 1398 § 1, commette delitto ogni chierico che “attenti contro il sesto comandamento del decalogo con un minore”, senza esigere penetrazione né consumazione. E dal punto di vista morale, la teologia cattolica riconosce che l’abuso sessuale è una violazione della dignità umana che non dipende dal tipo di atto fisico.

Quello che queste parole mostrano, al di là dell’intenzione, è una struttura istituzionale di tolleranza: si accetta che l’abuso sia esistito, si umanizza l’abusatore, si relativizza il danno e si posticipa la giustizia.

Un riconoscimento che obbliga ad agire

Il caso del Padre Lute non è più una questione di presunzione: c’è riconoscimento degli abusi davanti ai rappresentanti della Chiesa che indagano il caso. Le parole di Gambaro e Ramírez sono, in sé, una prova morale e pastorale del fatto che la Chiesa ha conoscenza piena dei fatti.

Quello che manca, e che le vittime esigono, è giustizia: non empatia con l’abusatore, né tecnicismi sulla penetrazione, ma una riparazione integrale e una condanna ferma. Perché quando un’istituzione riconosce un crimine e, allo stesso tempo, lo relativizza, smette di essere giudice per diventare compartecipe.

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