San Carlo Borromeo e la crisi della Chiesa: una lezione per i nostri tempi

San Carlo Borromeo e la crisi della Chiesa: una lezione per i nostri tempi

Oggi, 4 novembre, la Chiesa celebra la memoria liturgica di San Carlo Borromeo, uno dei grandi riformatori del XVI secolo e modello del vero pastore cattolico.
In un tempo di crisi dottrinale, morale e disciplinare, quando il protestantesimo frammentava l’Europa e la corruzione interna minava l’autorità ecclesiale, questo giovane cardinale milanese seppe convertire la riforma in un atto di santità e fedeltà eroica al Vangelo.

Cinque secoli dopo, in mezzo a nuove turbolenze e a un clima ecclesiale segnato dalla confusione, la sua figura brilla di nuovo con una forza profetica: la Chiesa non si rinnova con dibattiti né strutture, ma con la conversione e la croce.

Un vescovo nato per tempi difficili

Carlo Borromeo nacque nel 1538 in seno a una famiglia nobile di Arona, nel nord dell’Italia. Fin da giovane mostrò una profonda pietà e un’intelligenza precoce. Studiò diritto canonico all’Università di Pavia, e a 22 anni fu chiamato a Roma dal suo zio, il papa Pio IV (Giovanni Angelo Medici), che lo nominò cardinale e segretario di Stato.

Era un tempo convulso: Martin Lutero aveva iniziato la sua ribellione appena due decenni prima, e buona parte dell’Europa si trovava immersa nello scisma e in guerre religiose. La Chiesa aveva bisogno di una riforma urgente, non dettata dai principi né dagli umanisti, ma dall’interno, dal cuore dei suoi pastori.

Borromeo partecipò attivamente all’ultima fase del Concilio di Trento (1562-1563), dove si distinse per la sua chiarezza dottrinale e il suo impulso per la creazione di seminari diocesani. Non cercava compromessi con gli errori del protestantesimo, ma purificare la Chiesa per renderla più fedele a Cristo.

Alla morte del suo fratello, ereditò il signorato familiare e, libero ormai dalle sue obbligazioni civili, fu ordinato sacerdote nel 1563 e consacrato arcivescovo di Milano l’anno successivo. Aveva appena 25 anni.

Trento fatto carne: la riforma dall’altare

Quando arrivò a Milano, la diocesi portava più di ottant’anni senza un vescovo residente. Il clero era rilassato, molte parrocchie mancavano di catechesi e la vita cristiana languiva.
San Carlo iniziò allora una rinnovazione radicale: visitò tutte le parrocchie, riformò i monasteri, impose la residenza obbligatoria dei sacerdoti ed esigette che il culto divino si celebrasse con dignità.

Nel 1564 fondò il Seminario Maggiore di Milano, seguendo le direttive di Trento, e poco dopo stabilì seminari minori per formare i giovani chiamati al sacerdozio. La sua convinzione era ferma:

«Il sacerdote ignorante è il più grande nemico della Chiesa.»

Riorganizzò la catechesi parrocchiale, promosse le scuole di dottrina cristiana e pubblicò un catechismo diocesano che servì da modello per tutta l’Italia.
Il suo zelo per la liturgia lo portò a restaurare il rito ambrosiano, che ancora si celebra nella sua diocesi, e a insistere sulla riverenza del culto, convinto che la bellezza e l’ordine dell’altare siano riflesso della fede del cuore.

Soffrì la resistenza di parte del clero rilassato e di famiglie potenti, e persino fu vittima di un attentato nel 1569, quando un membro di un ordine ribelle gli sparò mentre pregava. La pallottola lo sfiorò, ma sopravvisse e perdonò l’aggressore.

Il pastore che non fuggì dalla peste

Nel 1576, una terribile peste —la cosiddetta peste di San Carlo— devastò la città di Milano. Il governatore spagnolo e molti nobili abbandonarono la città.
Borromeo, al contrario, rimase accanto al suo popolo. Vendette tutte le sue possessioni per soccorrere i malati, organizzò l’assistenza medica, trasformò chiese in ospedali improvvisati e si incaricò di nutrire migliaia di famiglie.

Durante i mesi più duri, percorrava le strade scalzo, con una corda al collo in segno di penitenza, portando il Santissimo Sacramento per benedire i moribondi. Le cronache raccontano che presiedeva processioni con i piedi sanguinanti, cantando salmi e preghiere per la fine dell’epidemia.
Quando alcuni gli rimproverarono che rischiava la sua vita, rispose con fermezza:

«Il pastore non abbandona il suo gregge quando il lupo ronda.»

Da quegli anni nacque la sua fama di santità. Non era un riformatore da scrivania, ma un pastore disposto a morire per il suo popolo. La sua testimonianza ricordava quella dei grandi santi dei primi secoli, quando i vescovi erano i primi a soccorrere, consolare e offrire speranza.

La vera riforma di fronte alle false riforme

San Carlo Borromeo non inventò una «nuova Chiesa»; riformò quella che Cristo aveva fondato.
Per lui, la riforma non consisteva nell’«aggiornare» la dottrina né adattarla allo spirito del tempo, ma tornare alle radici evangeliche con purezza e fermezza.
Diceva frequentemente:

«Non si può riformare la Chiesa se prima non ci riformiamo noi stessi.»

Quella frase racchiude il nucleo di ogni autentica rinnovazione.
Il suo esempio è oggi un antidoto di fronte alla tentazione contemporanea di confondere conversione con consenso.
Mentre alcuni ecclesiastici contemporanei promuovono «processi sinodali» o «nuove strutture partecipative», San Carlo ricorderebbe che nessuna assemblea sostituisce la santità personale, né alcun documento sostituisce la fedeltà alla verità rivelata.

La sua vita dimostra che la Chiesa non si rafforza dialogando con il mondo, ma riformando i suoi pastori e il suo popolo nella fede, la preghiera e la penitenza.

L’eredità di un santo per tempi di confusione

San Carlo Borromeo morì nel 1584, a 46 anni, esausto per il lavoro, le penitenze e le malattie.
Sul letto di morte chiese che non lo chiamassero «eminenza», ma «peccatore».
Fu canonizzato nel 1610 dal papa Paolo V, e la sua figura divenne simbolo del vescovo ideale: dotto, austero, orante e dedito.

Oggi, quando abbondano le voci che chiamano a «riformare» la Chiesa senza menzionare il peccato né la conversione, il suo esempio si erge come un monito luminoso: non c’è riforma vera senza santità, né santità senza sacrificio.

La sua vita ricorda ai pastori di tutti i tempi che la carità senza verità si converte in sentimentalismo, e la verità senza carità, in durezza sterile.
San Carlo unì entrambe: insegnò con chiarezza, corresse con fermezza e amò con tenerezza.
Il suo messaggio per il XXI secolo è semplice e urgente:

«Non abbiamo bisogno di inventare una nuova Chiesa, ma di essere santi in quella di sempre.»

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