Il cardinale Cupich ha parlato di nuovo, e come sempre, lo fa per spiegare ai fedeli che la liturgia non riguarda Dio, ma i poveri. Il suo commento su Vatican News riguardo all’esortazione Dilexi te di Leone XIV è un’ulteriore dimostrazione di quella malattia moderna che trasforma l’altare in un palcoscenico sociologico e l’Eucaristia in uno strumento di ingegneria morale. Dice Cupich che il Concilio Vaticano II è stato un “traguardo” nella comprensione del posto dei poveri nella Chiesa, e che quella consapevolezza ha ispirato anche la riforma liturgica. Tradotto: che la Messa doveva smettere di sembrare un’adorazione a Dio e diventare un’assemblea tra eguali.
Per lui, la “nobile semplicità” di Sacrosanctum Concilium consisteva nel liberarsi dei segni di trascendenza, della lingua sacra, del silenzio, dell’orientamento verso il Signore. Tutto ciò gli sembra “spettacolo”, perché in fondo non crede che sull’altare accada qualcosa. E quando si smette di credere nella Presenza Reale, non resta che la coreografia. Se Cristo non è realmente lì, se non c’è sacrificio, se l’altare non è Calvario, allora la Messa diventa un incontro benefico, un gesto simbolico, un “progetto di solidarietà con l’umanità”, come dice lui stesso.
Cupich parla di “purificare la liturgia da elementi spettacolari”. Ma ciò che chiama spettacolo è precisamente ciò che la Chiesa ha sempre chiamato adorazione. La genuflessione, l’incenso, il canto, il silenzio: tutto ciò che punta verso Dio gli risulta scomodo perché rivela ciò che lui non sopporta ammettere, che la Messa è un atto divino, non umano. Nella sua teologia, i poveri spostano Cristo; in quella della Chiesa, i poveri sono amati da Cristo. È una differenza di fede, non di sensibilità.
Per questo insiste che la liturgia debba essere “una scuola di pace” e “un progetto di solidarietà”. Non si rende conto che lo dice un vescovo con autista, circondato da marmo e microfoni, mentre disprezza la pietà silenziosa dei fedeli che pregano il rosario e partecipano al rito che lui abolirebbe se potesse. La sua Chiesa dei poveri è quella dei chierici soddisfatti che vivono di sentimentalismo pastorale e di sussidi statali.
No, Eminenza: la Messa non è una scuola di convivenza, né un laboratorio di giustizia sociale. La Messa è il Sacrificio di Cristo, che si offre al Padre per la salvezza del mondo. E precisamente perché crediamo nella Presenza Reale, perché sappiamo che quel Pane è Dio, i cattolici poveri e ricchi, sapienti e ignoranti, ci inginocchiamo davanti a Lui. Se Cupich e i suoi non lo fanno, non è per umiltà: è perché non credono che ci sia nessuno davanti a cui inginocchiarsi.
La liturgia non è stata fatta per sembrare semplice, ma per essere sacra. E la povertà che importa non è quella sociologica, ma quella di spirito, quella del pubblicano che non osa alzare gli occhi al cielo. Se Cupich credesse davvero che Cristo è sull’altare, non parlerebbe di “nobile semplicità” ma di santo timore. Ma è più facile parlare dei poveri che del Mistero.
Per questo il suo articolo non è una riflessione, ma una confessione involontaria: la confessione di aver perso la fede nella Presenza Reale. Quelli che credono che il Corpo di Cristo sia lì, continueremo ad adorare in ginocchio, anche se a Cupich sembri troppo “spettacolare”.
