Rivoluzione, controrivoluzione o consolidazione

Rivoluzione, controrivoluzione o consolidazione

Ogni rivoluzione apre una ferita nell’ordine naturale delle cose. Si presenta come una liberazione, ma in realtà introduce un’inversione del principio: dove prima regnava la verità, si installa la volontà; dove c’era gerarchia, emerge l’orizzontalità; dove esisteva obbedienza, si esalta l’autonomia.
E, dopo quel terremoto, la storia offre solo due uscite: la controrivoluzione che ripristina l’ordine o la cristallizzazione della rivoluzione, che diventa nuovo dogma e indurisce il suo dominio sotto apparenza di normalità.

La logica irreversibile delle rivoluzioni

La rivoluzione non dura: si consolida. La sua forza non sta nel grido iniziale, ma nell’abitudine che lascia. Ciò che è veramente pericoloso non è il caos del primo momento, ma la istituzionalizzazione del disordine, quando gli eredi della rottura imparano a vivere di essa.
Quanto più tempo passa senza reazione, più difficile è distinguere la deviazione dalla norma. Ciò che iniziò come eccezione pastorale diventa costume; ciò che fu abuso diventa prassi; e ciò che fu errore tollerato finisce per sembrare progresso. Lo vediamo nella comunione nella mano, per non andare oltre.

Ogni anno che trascorre senza controrivoluzione trasforma la rivoluzione in tradizione invertita, in religione del cambiamento perpetuo. La storia insegna che non c’è regime più stabile di quello che riesce a consolidare la sua rivoluzione senza resistenza.

Francesco e il trionfo pastorale del processo

Il pontificato di Francesco ha rappresentato la rivoluzione pastorale che ha sostituito l’ortodossia con l’elasticità morale, il magistero con il dialogo, la liturgia con l’evento. Non ha avuto bisogno di un manifesto: è bastato alterare l’equilibrio delle priorità.
Col tempo, quel cambiamento è diventato sistema: le strutture si sono adattate, i seminari si sono trasformati, l’obbedienza si è indebolita e il linguaggio dottrinale è diventato sentimentale. La rivoluzione si era cristallizzata, non perché avanzasse, ma perché non trovava più opposizione.

Questa è la sua vittoria più profonda: non la rottura, ma l’abituazione. Quando il popolo di Dio assume il disordine come normale, la rivoluzione ha smesso di essere una novità e si è convertita in cultura.

Leone XIV e la prova della restaurazione

In questo contesto, Leone XIV non riceve una Chiesa in crisi: riceve una Chiesa rieducata dalla rivoluzione. Il suo compito non è contenere un incendio, ma rompere il ghiaccio. Non si tratta più di fermare un processo, ma di invertire una consolidazione.
Se il suo pontificato si limita a restaurare l’ordine esteriore —la compostezza, la solennità, la disciplina— senza ristabilire i principi sfigurati, non ci sarà controrivoluzione, ma una pace napoleonica: l’ordine della rivoluzione matura.

Ma se la sua voce osa dire di nuovo che la verità non si negozia, che la misericordia non sostituisce la conversione e che la liturgia non è un palcoscenico ma un sacrificio, allora potrà iniziare la vera restaurazione. Non sarà rapida né spettacolare, ma avrà il sigillo dell’irreversibile, perché sarà fondata sull’eterno.

Tra il costume dell’errore e il coraggio della verità

La storia insegna che ogni rivoluzione si solidifica in assenza di resistenza. Quanto più tempo si lascia senza contrappeso, più sottile diventa il suo dominio. Per questo la controrivoluzione non può aspettare: ogni anno di silenzio è un anno di cemento che indurisce il nuovo ordine.

Leone XIV ha davanti a sé il dilemma di tutti i restauratori: o governa sulle rovine senza toccarle, o osa ricostruire dalle radici. Perché ciò che disfa una rivoluzione non è l’ordine apparente, o l’unità forzata, ma la verità reinsediata.

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