Leone XIV ha inviato un messaggio all’incontro virtuale organizzato dalla Presidenza del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM) in occasione dell’Anno Santo. Nel messaggio datato 12 ottobre ma pubblicato oggi nel Bollettino della Santa Sede, il Pontefice ha sottolineato che il Giubileo deve essere vissuto come un incontro personale con Gesù Cristo, fonte di riconciliazione e speranza, e ha invitato in modo speciale i popoli indigeni a presentare con coraggio la loro ricchezza culturale e cristiana nel seno della Chiesa universale.
Pubblichiamo di seguito il messaggio integrale di Leone XIV:
Cari fratelli e sorelle:
Mi è gradito unirmi all’evento virtuale che, in occasione dell’Anno Santo, avete organizzato dalla Presidenza del C.E.L.A.M. È certamente una felice occasione per approfondire il significato del dono che il Signore ci offre attraverso la sua Chiesa. Il giubileo deve essere per noi principalmente «un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, “porta” di salvezza» (Francesco, Bula Spes non confundit, 1), essendo occasione di riconciliazione, di memoria grata e di speranza condivisa, più che una mera celebrazione esterna. Nel programmare i momenti giubilari, il Papa Francesco ha voluto mettere in rilievo l’universalità della Chiesa, che si manifesta in tante vocazioni, età e situazioni di vita: famiglie, bambini, adolescenti, giovani, adulti anziani, ministri ordinati e laici, servi nella Chiesa e nella società. Quella stessa universalità, che non uniforma, ma accoglie, dialoga e si arricchisce con la diversità dei popoli, include in modo speciale voi, i Popoli Originari, la cui storia, spiritualità e speranza costituiscono una voce insostituibile all’interno della comunione ecclesiale.
In questa linea, mi sembra importante comprendere che quando attraversiamo la Porta Santa, più che la realizzazione di un gesto simbolico entrando in un bel tempio, ciò che vogliamo è introdurci, mediante la fede, nella stessa fonte dell’amore divino, il costato aperto del Crocifisso (cf. Gv 20,27-29). È in quella fede che siamo un Popolo di fratelli, uno nell’Uno (cf. S. Agostino, Commento al Salmo 127,4). È da quella Verità che dobbiamo rileggere la nostra storia e la nostra realtà, per affrontare il futuro con la speranza a cui ci convoca l’Anno Santo nonostante le fatiche e le tribolazioni (ib., 5.10).
Questa prospettiva può aiutarci nella nostra riflessione, poiché essendo Popoli Originari, si rafforzano con la certezza che Uno solo è l’origine e la meta dell’universo (cf. Rm 11,36), il Primo in tutto (cf. Col 1,18); origine di ogni bontà, e perciò, fonte prima di tutto ciò che è buono, anche nei nostri popoli. È da quella certezza di fede che sgorga la nostra azione di grazie giubilante nell’entrare per la Porta Santa del Cuore di Cristo: «Benedetto sia Dio, Egli ci ha scelti in Cristo, prima di creare il mondo per essere suoi figli» (cf. Ef 1,3-5). Questa è la meta della nostra speranza, non è solo di alcuni ma di tutti, persino degli un tempo considerati nemici: «filistei, siriani, etiopi», «Egitto e Babilonia» (vv. 3-4), le grandi potenze occupanti, «tutti sono nati in essa» (Sal 86,5). San Agostino dirà: «di cui nomina solo alcune, affinché intendiamo tutte» (Commento al Salmo 86,6).
Purtroppo, in quanto uomini, questa non è l’unica accezione di “originale” con cui dobbiamo confrontarci. La lunga storia di evangelizzazione che hanno conosciuto i nostri Popoli Originari, come hanno insegnato tante volte i vescovi dell’America Latina e dei Caraibi, è carica di “lumi e ombre”. San Agostino lo applica nel caso dei servi del Vangelo dicendo: «Se l’uomo è buono, è unito a Dio e collabora con Dio; se è cattivo, Dio opera attraverso di lui la forma visibile del sacramento e dà da sé la grazia. Teniamo questo e non ci saranno scismi tra noi» (Lettera 105, 12). In questo modo il Giubileo, tempo prezioso per il perdono, ci invita a «perdonare di cuore ai nostri fratelli» (cf. Mt 18,35), a riconciliarci con la nostra stessa storia e a rendere grazie a Dio per la sua misericordia verso di noi.
In questo modo, riconoscendo sia i lumi che le ferite del nostro passato, comprendiamo che solo potremo essere Popolo, se realmente ci abbandoniamo al potere di Dio, alla sua azione in noi. Egli, che ha inserito in tutte le culture i “semi del Verbo”, li fa fiorire in una forma nuova e sorprendente, potandoli perché portino più frutto (cf. Gv 15,2). Così affermava il mio Predecessore, san Giovanni Paolo II: «La forza del Vangelo è ovunque trasformatrice e rigeneratrice. Quando penetra in una cultura, chi può meravigliarsi che in essa cambino non pochi elementi? Non ci sarebbe catechesi se fosse il Vangelo a dover cambiare in contatto con le culture» (Esort. ap. postsin. Catechesi tradendae, 53). Perciò, nel dialogo e nell’incontro, impariamo dai diversi modi di vedere il mondo, valorizziamo ciò che è proprio e originale di ogni cultura, e insieme scopriamo la vita abbondante che Cristo offre a tutti i popoli. Quella vita nuova ci è data proprio perché condividiamo la fragilità della condizione umana segnata dal peccato originale, e perché siamo stati raggiunti dalla grazia di Cristo, che per tutti ha versato fino all’ultima goccia del suo Sangue, affinché avessimo «Vita in abbondanza» (cf. Gv 10,10), sanando e redimendo quanti gli aprono il cuore alla grazia che ci è stata donata.
Voi vi riunite ora per approfondire tutte queste cose, per questo non voglio concludere senza citare quel termine che tanto amò il mio Predecessore, il Papa Francesco: la parresia, quell’audacia evangelica, l’uscire da se stessi per annunciare il Vangelo senza paura e con libertà di cuore, che «dice tutta la verità perché è coerente» (Meditazione quotidiana, 18 aprile 2020).
Nel concerto delle nazioni, i popoli originari devono presentare con coraggio e libertà la propria ricchezza umana, culturale e cristiana. La Chiesa ascolta e si arricchisce con le loro voci singolari, che hanno un posto insostituibile nel coro magnifico dove tutti proclamiamo: «Signore Dio eterno, gioiosi ti cantiamo, a te la nostra lode» (cf. Inno del Te Deum). E in questa lode comune, ricordiamo anche la chiamata del Vangelo a evitare la tentazione di mettere al centro ciò che non è Dio —sia il potere, la dominazione, la tecnologia o qualsiasi realtà creata—, affinché il nostro cuore rimanga sempre orientato all’unico Signore, fonte di vita e speranza.
Per questo, per coloro che, per misericordia di Dio, ci chiamiamo e siamo cristiani, tutto il nostro discernimento storico, sociale, psicologico o metodologico trova il suo senso ultimo nel mandato supremo di far conoscere Gesù Cristo, che morì per il perdono dei nostri peccati e risuscitò affinché fossimo salvati nel suo Nome, già da questa terra, e poi lo adorassimo con tutto il nostro essere nella gloria del Cielo.
Affidando i vostri lavori alla Beata Vergine Maria di Guadalupe, Stella dell’Evangelizzazione, che in modo ammirevole ci ha mostrato come Gesù Cristo «fece di due popoli uno solo, abbattendo il muro di inimicizia che li separava» (cf. Ef 2,14), vi invito a rinnovare l’impegno con il mandato del Signore: «Andate, e fate che tutti i popoli siano miei discepoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, e insegnando loro a mettere in pratica tutto ciò che io vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20), diffondendo la gioia che sgorga dall’aver incontrato il suo Divino Cuore.
Città del Vaticano, 12 ottobre 2025, Nostra Signora della Concezione Aparecida.
LEONE PP. XIV
