Hay dolores que no se gridano: si portano in silenzio, come chi sanguina dentro. Uno dei più ineffabili è quello di vedere un fratello sacerdote che ha perso la rotta della sua vocazione. Non è un dolore teorico né lontano: tocca i suoi fratelli nella fibra più profonda, perché tutti condividiamo la stessa unzione. Da quel giorno in cui il Vescovo ci ha imposto le mani e siamo rimasti sigillati per sempre, siamo una famiglia. E quando uno si smarrisce, gli altri sentiamo che qualcosa si rompe dentro di noi.
Tuttavia, questa ferita non deve portarci allo scandalo paralizzante né al giudizio severo. Se fa male fino alla morte, è perché amiamo il sacerdozio e perché conosciamo ciò che è in gioco: la salvezza delle anime, la fecondità della Chiesa, la gloria di Dio, l’entusiasmo del Cuore di Gesù. Il peccato di uno non cancella la santità degli altri, né tanto meno la santità del sacramento. Il presbiterio di quella diocesi è buono, molto buono, dedicato, silenziosamente eroico. Non si vergogna di piangere per il fratello caduto, né di offrire per lui sacrifici e ore di adorazione.
Il nostro dolore purifica, non è sterile se lo convertiamo in preghiera. Ogni lacrima che versiamo per un fratello può essere offerta affinché il Signore lo riscatti, lo riporti a casa, lo renda più santo di quanto fosse prima di cadere. La storia di Pietro, che negò Cristo e poi fu il primo degli apostoli, ci ricorda che nessuno è perduto se si lascia raggiungere dallo sguardo di Gesù.
La caduta di uno di noi è un colpo di Dio per rivedere la nostra vita, non per guardare il vicino con sospetto. È momento di tornare al Vangelo, di ricordare le esigenze della nostra vocazione e di tenere presente l’avvertimento di Paolo, il grande innamorato: Qui se existimat stare, videat ne cadat! (1Cor 10, 12). O quell’avviso dell’Aquila di Ippona: «Non c’è peccato al mondo che l’uomo non possa commettere se la mano che ha fatto l’uomo smettesse di sostenerlo» (S. Agostino, Soliloquio I, 1).
Pulizia trasparente
Un sacerdote senza semplicità finisce per perdere il senso dell’essenziale; un sacerdote senza pulizia di vita diventa preda facile del mondo e delle sue ombre; un sacerdote senza trasparenza finisce per disconnettersi dai suoi fratelli.
La coerenza sta nel fatto che il nostro stile di vita predichi più delle nostre omelie. Il nostro celibato, vissuto con pulizia di cuore, non è un peso: è la libertà di amare con un cuore indiviso. La trasparenza nello sguardo, l’eleganza nelle parole, il pudore nei gesti, la delicatezza nel trato sono il miglior sermone che possiamo predicare in un mondo saturo di impurità, di menzogna, di edonismo. Non basta essere casti: bisogna essere luminosi, in modo che la gente possa vedere in noi Cristo, lo Sposo della Chiesa.
Il nostro è la moderazione nei divertimenti, l’equilibrio nell’uso delle reti, il tempo dedicato a cose che edificano. Uno dei grandi pericoli del sacerdozio è vivere senza guida spirituale. Il sacerdote ha bisogno di aprire l’anima, di lasciarsi accompagnare, di lasciarsi correggere: senza qualcuno esperto e soprannaturale che lo ascolti e lo confronti con la verità, è esposto a perdere l’obiettività della propria coscienza.
E i nostri viaggi? Alcuni saranno necessari e sacerdotali, ma altri disperdono, inquietano, mondanizzano, destabilizzano interiormente ed esteriormente. C’è un modo di muoversi che arricchisce, e un altro che stanca l’anima e la espone a tentazioni inutili. Lo avvertiva Kempis: «Qui multum peregrinantur, raro sanctificantur» (De imitatione Christi I, 23) È anche vitale coltivare il gusto per la lettura seria, per lo studio, per il tempo di silenzio, di preghiera prolungata davanti al tabernacolo, di raccoglimento in casa. Un sacerdote che non sa stare fermo in presenza di Dio finisce vuoto, divorato dalle urgenze.
Eresia dell’attivismo
Così la chiamò Pio XII questo subdolo nemico che fa sì che oggi coloro che occupano cariche si vedano sottoposti a riunioni incessanti che, lungi dal nutrire la vita spirituale, la esauriscono. Sono frutto di un semipelagianesimo tristemente presente nella Chiesa, che sembra confidare più in piani pastorali interminabili e peculiari e nello sforzo umano che nella grazia divina. Questo assembleismo di radice postconciliare, più vicino a una visione protestante e sinodalista che alla concezione gerarchica e sacramentale della Chiesa, ha portato a moltiplicare incontri, commissioni e riunioni interminabili che rubano tempo alla preghiera, al silenzio, a incontri amichevoli con altri sacerdoti, a passatempi legittimi che rilassano la psiche e alleviano le tensioni, e a veri piani pastorali in contatto con le anime.
Se il sacerdote non difende il suo tempo di preghiera, di lettura, di riposo, di passeggiata o sport, di ritiri periodici…, corre il rischio di svuotarsi interiormente, di rimanere indifeso di fronte alle tentazioni, e persino di ammalarsi fisicamente, con le conseguenti ripercussioni emotive e relazionali. L’attivismo senza contemplazione e senza il coraggio di riposare (come ci disse nell’Anno Sacerdotale Benedetto XVI) uccide l’anima sacerdotale… e a volte anche il corpo. È una forma sciocca e grottesca di smettere di essere ciò che siamo.
Inoltre, la fraternità sacerdotale sincera è il grande antidoto contro la solitudine pericolosa e autosufficiente. Un sacerdote non può vivere isolato, senza aprirsi ai suoi fratelli. L’amicizia sacerdotale non è un lusso, ma un dovere. Abbiamo bisogno di condividere, di confrontarci con carità, di correggerci, di ridere e piangere insieme. Il silenzio complice uccide; la correzione fraterna salva. «Frater qui adiuvatur a fratre, quasi civitas firma» (Prov 19, 19).
Grazie, Gesù, per i tuoi sacerdoti!
La caduta di uno non oscura la fedeltà di tanti altri. Nonostante un sacerdote caduto, il popolo di Dio continua a confidare nei suoi pastori e a pregare per loro, sapendo che molti, incomparabilmente di più, celebrano la Santa Messa con devozione, passano ore in confessionale, predicano la sana dottrina, visitano gli ammalati, catechizzano i bambini, orientano le vocazioni, accompagnano matrimoni e famiglie, ascoltano pazientemente chi soffre, servono i poveri. Essi sono la vera notizia, il volto vivo di Cristo in mezzo al suo popolo.
La luce è più forte delle tenebre, e il bene che fanno tanti sacerdoti supera di gran lunga la ferita che può provocare l’inciampo di uno solo.
Nel momento del dolore, è giusto e necessario alzare gli occhi e dare grazie: per l’entusiasmo generoso di tanti sacerdoti giovani, che danno il meglio di sé nei primi anni del loro ministero; per l’offerta immolata di tanti sacerdoti malati, che offrono la loro sofferenza in silenzio per il bene della Chiesa; per la saggezza veterana di tanti sacerdoti anziani, che, dall’esperienza, continuano a insegnare con il loro esempio; per la fedeltà quotidiana di professori, cappellani e parroci, missionari e monaci, che pregano e sostengono la fede in scuole, ospedali, parrocchie e conventi; e per i vescovi, che, «catholicæ et apostolicæ fidei cultores», nella Chiesa scossa di oggi si sforzano di ascoltare, guidare, sostenere e incoraggiare i loro sacerdoti.
Leone XIV: «preparare la terra»
Basta con quel noioso e campanilistico assembleismo che stanca e disperde, inventando sempre più riunioni inutili. È urgente, da decenni, tornare al fondamento: una solida formazione umana; un’educazione virile e sincera degli affetti, sradicando la sensibleria e l’infantilismo, accettando umilmente la realtà e i propri limiti. E su quella base, indefettibile, una vita spirituale forte e ordinata, matura e autoesigente, rilassata e felice.
Nella sua recentemente apparsa biografia autorizzata da lui, Leone XIV dice qualcosa che oggi più che mai dovrebbe essere tenuto presente nei seminari e nella tanto decantata «formazione permanente» dei presbiteri:
«Uno degli aspetti che ho sempre considerato molto importante e che conduce a una sana formazione è iniziare con il principio tomista secondo cui la grazia perfeziona la natura. Quindi dobbiamo preparare la natura, preparare la terra dove si intende seminare il seme, per dire: chi sono queste persone che arrivano? La dimensione umana è estremamente importante. Questo significa aiutare i giovani, in primo luogo, a conoscersi. Ovviamente, il formatore dovrebbe conoscerli fino a un certo punto, ma non cercare di saltare alla spiritualizzazione di «hai una vocazione, prega molto e allora Dio ti farà un buon sacerdote». Bisogna preparare la terra. Questo non accade automaticamente tutto il tempo, quindi è necessario camminare con questi giovani che mostrano qualche indizio di avere una vocazione, per aiutarli a riconoscere chi sono, quali sono i loro doni e debolezze, a imparare a rispettarsi a vicenda, a sviluppare un concetto sano dell’umanità, a essere liberi. Alcuni mi hanno criticato per questo, ma io non ero così disciplinare, da togliere tutta la libertà personale e dire «devi fare questo», e dove ogni minuto del giorno è altamente regolamentato, perché la gente non cresce verso la libertà in quel modo, cresce verso la conformità. Spesso, se la persona non è sana a tutti i livelli quando inizia questo processo, forzarla a rispettare certe norme [non è il meglio]. Molta gente può farlo, ma poi, quando escono dalla formazione e diventano sacerdoti o religiosi, le difficoltà che forse già esistevano riappaiono e vengono i problemi».
Donna, ecco tuo figlio!
Non ci sono ricette magiche né è possibile sradicare da noi la concupiscenza, ma almeno abbiamo «vergogna torera». Dobbiamo essere ciò che siamo: uomini, sacerdoti e santi. ¡In quell’ordine! La nobiltà obbliga. Prima, durezza e senso del dovere, serietà e allegria, spirito di sacrificio e di lavoro, fedeltà alla parola data e apertura disinteressata all’amicizia, equanimità e vigile dominio di sé, austerità sobria e distaccata, capacità relazionale con naturalezza, libertà e virilità nella gestione degli affetti, rinuncia propria, morte ai capricci puerili e alla centrifugazione dei problemi reali o immaginari, sonora risata di fronte al culto del corpo e all’ipocondria, olimpico disprezzo delle mode, manifestazione della propria identità in tutti i dettagli del modo di vestire. Dopo, o simultaneamente, pregare, pregare, pregare molto: adorazione eucaristica silenziosa, senza chitarrine né testimonianze; Santa Messa ben preparata, celebrata e ringraziata, senza protagonismo invasivo dell’omelia, cioè «mio»; preghiera fedele e puntuale del breviario, munus suavissimum del sacerdote, la sua gioiosa e volontaria «schiavitù» orante per le anime, sette volte al giorno. E digiuno, in una delle sue mille possibilità. Solo lui fa fuggire satana. Poiché, per dirla con la Santa, «regalo e preghiera non si compongono».
Maria, Madre dei sacerdoti, ci mantenga fedeli fino alla fine e alzi con la sua mano il fratello caduto, affinché un giorno possiamo abbracciarlo di nuovo nella gioia della riconciliazione. Che nessun sacerdote del mondo smetta di pregare il Santo Rosario né un solo giorno della sua vita: se siamo fedeli a questo appuntamento quotidiano con la Signora, Ella non permetterà che ci perdiamo.
Il sacerdozio è la maggiore grazia che abbiamo ricevuto. Non è nostro, è di Cristo, per la gloria della Santissima Trinità e per il popolo di Dio. Per questo, sebbene il dolore di oggi sia immenso, continuiamo in piedi, continuiamo in guardia, continuiamo a lottare, incoraggiati dalla celeste vincitrice di tutte le battaglie di Dio. La dolcezza di questa certezza ci consola e ci infiamma: Maria duce!
Mons. Alberto José González Chaves
