Un commento invitato di Martin Grichting
Il teorico dello Stato Thomas Hobbes (1588-1679) era un realista. In termini cristiani, si direbbe che teneva conto della natura dell’essere umano, indebolita dalle conseguenze del peccato originale. Per questo non solo ha popolarizzato l’antica frase «Homo homini lupus» (l’uomo è un lupo per l’uomo). Nella sua opera «Leviatán» mostra anche perché è necessario uno Stato: senza il suo potere restrittivo, la competitività e l’ambizione degli esseri umani condurrebbero a una guerra di tutti contro tutti. Questo lo impedisce lo Stato forte, il Leviatán, quel «dio mortale al quale solo sotto il Dio eterno dobbiamo la nostra pace e protezione».
Nel «Leviatán», Hobbes affronta anche il tema del consiglio. Deve un superiore ricevere consiglio direttamente, in privato o in pubblico? Per Hobbes, che non si fa illusioni, è chiaro: il monarca è in grado di consultare chiunque, dove e quando vuole, e ascoltare in silenzio le opinioni di coloro che hanno più esperienza nella questione in questione. Per questo, il monarca dovrebbe ascoltare i suoi consiglieri individualmente, e non in riunioni pubbliche. Nel primo caso, conoscerebbe l’opinione di diversi, mentre nel secondo, spesso conoscerebbe solo l’opinione di uno solo. I membri di un consiglio si lasciavano guidare da coloro che erano eloquenti o potenti. Per non essere considerati stupidi, spesso erano d’accordo con opinioni che non capivano nemmeno. Molti consiglieri antepongono il bene proprio a quello comune. Se fossero ascoltati individualmente, questo sarebbe meno dannoso. Perché, da soli, l’essere umano è più moderato. Ma quando si trova in un’assemblea, le torce individuali si infiammano insieme, come per una raffica di vento, per l’eloquenza di alcuni, il che porta alla rovina dello Stato. Inoltre, in pubblico, alcuni consiglieri menzionavano cose che non avevano nulla a che fare con il tema, solo per dimostrare le loro ampie conoscenze e la loro eloquenza. (Cap. 19 e 25).
Se si tiene conto del sinodalismo con cui la Santa Sede ha inondato la Chiesa per anni, bisogna constatare che «i figli di questo mondo sono più astuti nel loro trato con gli altri che i figli della luce» (Lc 16,8). Perché anche se non si vuole attribuire all’attività sinodale intenzioni sinistre, ma semplicemente ingenuità, le dinamiche negative contro cui ha messo in guardia Hobbes emergono alla luce: ufficialmente si consiglia i superiori, sia il Papa, il vescovo o il parroco. Ma in realtà si parla con i pari. Si produce da soli e si influenza gli altri a modo suo, se possibile anche attraverso i mezzi di comunicazione. Gli ultimi anni hanno dimostrato che per molti non si tratta della questione in sé, ma della loro questione. E si manifestano i comportamenti prevedibili di influenza, manipolazione e giochi di potere dei gruppi di pressione. Gli eventi sinodali a livello mondiale, nazionale, diocesano e parrocchiale sono la passerella degli egocentrici, degli arrivisti e degli ideologi. Sfilano sulla passerella sinodale, non per mostrare al pubblico i loro attributi fisici da tutti gli angoli, ma le loro abilità teologiche e intellettuali, spesso solo presunte. Con le loro teorie, spesso seminano confusione tra il popolo di Dio e trasformano la Chiesa in un parlamento. Le autorità assicurano con ingenuità che non è così. Tuttavia, le attività sinodali, se ancora interessano a qualcuno, sono intese in modo parlamentare dalle persone abituate alla democrazia.
Il capitolo IV di «Lumen Gentium» contiene due frasi sulla partecipazione di alcuni laici alla missione della gerarchia (cfr. LG 33). Queste frasi sono il punto di partenza per la loro partecipazione sinodale. Ma il Concilio parla nel capitolo IV di «Lumen Gentium» (secondo la traduzione tedesca) in 88 frasi della missione di tutti i laici in famiglia e nel seno dello Stato, della società civile, dell’economia, della cultura e dei mezzi di comunicazione. Se rimane valido che si deve applicare il Concilio Vaticano II, non si dovrebbe praticare il sinodalismo e promuovere la missione nel mondo che incombe a tutti i laici in una proporzione di 2 : 88? Tuttavia, da «Christifideles laici» (1988) non se ne è più sentito parlare molto. Al suo posto, l’incessante attivismo romano fa capire ai laici che la realizzazione della loro missione risiede nel sinodalismo. Poco a poco emerge la inquietante domanda: si nasconde dietro il ripiegamento sulle proprie strutture l’ammissione che il Concilio Vaticano II non è applicabile, almeno per quanto riguarda il rapporto della Chiesa con la modernità, la democrazia e la società di liberi e uguali?
